Nel 2024 per la democrazia non va meglio che nel 2023. Ovunque si è votato, in Sardegna e in Abruzzo, si è registrato un decremento della partecipazione al voto rispetto alla tornata precedente e sarà così anche per le prossime scadenze di quest’anno.
Già nello scorso anno in Lombardia l’affluenza era scesa sotto il 50%, così pure in Friuli-Venezia Giulia e in Molise; nel Lazio addirittura sotto il 40%. Non va meglio se si guarda il trend della partecipazione alle elezioni europee e, persino, a quelle politiche. Tutti infatti si chiedono quale sarà l’affluenza il prossimo 8 e 9 giugno, quando saremo chiamati a rinnovare i deputati del Parlamento europeo. L’ultima volta, nel 2019, la partecipazione era stata del 55%. E la politica nazionale appare altrettanto scoraggiante, con una perdita di ben 9 punti percentuali nel 2022, attestandosi la partecipazione elettorale al 64%, quando nel 2018 era del 73%.
Anche negli altri Paesi europei accadono vicende analoghe; oltre alla scadente partecipazione al voto europeo degli altri Stati membri, anche per le elezioni amministrative l’affluenza è limitata e si aggira intorno al 50%. Quella regionale in Francia è stata nel 2021 del 33,3% al primo turno e del 34,7% al secondo turno. Solo la Germania sembra stare meglio attestando la partecipazione alle elezioni federali intorno al 73% e quella alle elezioni regionali tra il 55% e il 63%.
Questi trend sono preoccupanti perché è ovvio che una mancata partecipazione popolare al voto – amministrativo, regionale o nazionale – attenua la legittimità del risultato e quando la partecipazione scende sotto il 50% è evidente che nei fatti la legittimazione popolare all’esercizio del potere pubblico è discutibile.
Ovviamente, non sotto il profilo formale, in quanto – come è noto – vale il principio che chi vota decide anche per chi non vota. Il problema è sostanziale: che democrazia è questa, se gli elettori non si recano nemmeno al seggio? Come fa l’eletto a considerarsi investito realmente della rappresentanza, se la sua candidatura di fatto è stata rifiutata con il non voto?
Proprio in questi giorni sulla partecipazione democratica vi è stata una riflessione di Sabino Cassese sul Corriere della Sera e una su La7 l’hanno offerta Corrado Augias e Luciano Canfora; tutti sembrano essere approdati alla conclusione che si tratta di un problema di educazione e di istruzione che mancherebbe e che danneggerebbe la democrazia. Insomma, alla fine, la responsabilità sarebbe proprio degli elettori e, tra questi, di quelli più giovani.
La risposta, innegabilmente intellettualistica, non convince affatto, per due motivi. Il primo, in democrazia – per definizione – gli elettori hanno sempre ragione e, se rifiutano l’offerta politica che i partiti mettono in campo, semmai la responsabilità è proprio della classe politica. Il secondo motivo è dato dalla circostanza che votavamo tanto di più quando eravamo meno istruiti. Nel 1948 l’affluenza alle elezioni politiche è stata del 92% ed è cresciuta dell’1% nel 1953 rimanendo stabile per tutti gli anni a seguire sino al 1992; solo dopo è cominciato il declino.
Lo stesso dicasi per le elezioni europee. Nel 1979, anno di prima elezione del Parlamento europeo, la partecipazione è stata dell’86% e si mantenne stabile sino alla crisi monetaria del 1992-94.
Anche le Regioni hanno goduto in passato di un’ampia partecipazione elettorale. Quando furono istituite, nel 1970, l’affluenza oscillò dal 97% dell’Emilia-Romagna all’80% del Molise e restò stabile per tutto il periodo, fino alla crisi della prima metà degli anni 90.
Questi dati ci dicono qualcosa. Ciò che nuoce alla democrazia, da un lato, sono le crisi e, dall’altro, lo svuotamento delle sedi di rappresentanza (regionali, nazionali ed europee). I cittadini comprendono perfettamente la risposta alle crisi che il Paese ha attraversato dagli anni 90 in avanti, da parte della classe politica. Questa, infatti, è stata quella di svuotare di significato politico le istanze rappresentative. E in Europa i problemi sono nati con il Trattato di Maastricht che ha subordinato le istituzioni autenticamente comunitarie al volere del Consiglio europeo che è una istituzione intergovernativa.
Il declino della partecipazione elettorale è stato consequenziale sì alle crisi, ma risultato della risposta politica con cui si è cercato di superarle. Non è un caso che la “decadenza” democratica si situa proprio in quel tornante di anni in cui la politica passa dal sistema dei partiti politici a quello del leader: del 1993 è la legge sull’elezione diretta dei sindaci, del 1994 è la legge elettorale maggioritaria, del 1995 è quella pessima modifica legislativa che cerca di condizionare il sistema elettorale regionale.
Ma, aldilà delle vicende delle leggi elettorali, ciò che appare significativo è che la politica sia passata dalla partecipazione popolare, attraverso i partiti, alla delega in bianco al leader di turno e, con la personalizzazione della politica, si sia smontato il ruolo delle rappresentanze. Non a caso l’unico Paese ad avere dati migliori è la Germania, perché lì gli esecutivi sono forti solo se rispettano realmente le Camere elettive, per cui l’elettore sa che il suo voto peserà nelle decisioni future. Inoltre, in Germania la legge sulla partecipazione all’Europa segna la prevalenza del Parlamento sul Governo federale, per cui tutte le decisioni europee passano prima dal Parlamento tedesco.
Da noi, invece, lo svuotamento delle rappresentanze è stato fortemente desiderato e realizzato dai leader di tutti i colori politici, allontanando gli elettori dalla politica, sino al punto da convincerli che si poteva tranquillamente ridurre il numero dei loro rappresentanti; ed è in atto un ulteriore passaggio, con la continua messa in discussione della rappresentanza bicamerale a favore duna rappresentanza monocamerale, con argomenti degni della peggiore democrazia totalitaria.
Ora, una volta che tutto questo è accaduto, e accadrà, la questione non è più la legittimazione democratica, ma la democrazia in sé, quella che è stata fondata sull’eguaglianza del voto e sull’universalità del suffragio, facendo attenzione che eguaglianza del voto e universalità del suffragio non sono altro che la conseguenza di una vera eguaglianza dei cittadini. La loro menomazione, perciò, ci porta dritti in una società che disconosce l’altro come eguale e che si avviluppa in forme accentuate di squilibrio interno, tanto di ordine politico, quanto soprattutto di tipo economico.
Inoltre, la crisi della rappresentanza, di cui l’affluenza alle urne è solo un sintomo, si sposta dalla rappresentanza alla democrazia tout court, perché la differenza tra governanti e governati non è più contenuta e controllata, ma diventa incolmabile e la sfiducia nel voto dipende da questa distanza e, per certi versi, contrapposizione. Lo Stato democratico, detto diversamente, non riesce più a realizzare sé stesso, e cioè non riesce a realizzare la partecipazione, e la politica preferisce ormai l’acclamazione, anche solo per un momento. Ma attenzione: ad acclamare il potere sono sempre meno.
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