Il sistema elettorale che fa da spartito alle imminenti elezioni regionali in Emilia-Romagna – i prossimi 17 e 18 novembre – non ha particolarità che siano più di altre imputabili a strategie politiche di parte. In estrema sintesi, il sistema è di base proporzionale, ma con premio di maggioranza (9 consiglieri su 50); è prevista l’elezione diretta del presidente della Regione (ma è un obbligo “costituzionale”); è possibile il cosiddetto voto disgiunto e c’è l’obbligo alla rappresentanza di genere nelle liste, con accessoria la possibilità di esprimere due preferenze, nell’ambito della stessa lista, purché per candidati di sesso diverso.
Il premio di maggioranza – e questa è forse la variazione di maggior rilievo, introdotta nel “parlamentino” emiliano-romagnolo con un blitz notturno dopo la caduta di Vasco Errani nel 2014, a seguito della vicenda “Terre emerse” – è “spalmato” proporzionalmente tra le liste della colazione vincente. In passato, e ancora in alcune Regioni, il premio di maggioranza era ed è il cosiddetto “listino” del presidente, con nomi scelti a sua discrezione e senza essere soggetti alle preferenze (fu proprio questo “listino” una delle vicende che iniziarono a travolgere, come noto, Roberto Formigoni). Il “listino” in questione era da molti politici vissuto come un indebito privilegio per alcuni ed un eccesso di potere del presidente vincente, considerando la sua ulteriore possibilità di scegliere discrezionalmente tutti gli assessori della giunta.
In questa dominanza dei presidenti regionali c’è anche chi ha voluto vedere una causa dello svuotamento del ruolo dei consigli regionali, divenuti talvolta mere appendici del governo regionale. Nell’ultima legislatura, in Emilia-Romagna non è passata nemmeno una legge che non fosse d’iniziativa della giunta. Consiglieri regionali, quindi, non pervenuti. O non ascoltati. Basti esemplificare che un tema delicatissimo come il fine vita – peraltro non di competenza regionale – in Emilia-Romagna è stato regolato d’imperio in fretta e furia, e senza alcun confronto, con una delibera di giunta, onde evitare qualsiasi periglioso e divisivo dibattito nel “parlamentino” di viale Aldo Moro, che pure sarebbe il luogo deputato al confronto democratico.
Il presidente vincente in Emilia-Romagna è comunque uno dei 50 eletti previsti (il Lazio invece lo prevede oltre i 50 eletti), così come è uno dei 50 anche il secondo arrivato (che così sottrae un seggio alla propria coalizione).
È certamente vero che tutte le maggioranze politiche, in Italia, han cercato nel tempo di variare i sistemi elettorali per trarne vantaggio e assicurarsi il risultato, dietro il paravento della “governabilità” da garantire. L’esito è sempre stato altamente insoddisfacente. In effetti è difficile sottrarsi alla sensazione che in Italia i sistemi elettorali siano una vera e propria giungla.
Quanto alle Regioni, il paradosso è semmai nelle differenze che si sono realizzate, pur entro alcuni argini fissati dal Parlamento. Qualcuno ha anche commentato “ogni Regione vota a modo suo”. I post-comunisti in Emilia-Romagna a lungo hanno potuto accontentarsi a livello locale senza scossoni del tradizionale sistema proporzionale previsto per le Regioni, sapendo di poter contare su un solido e duraturo consenso. Nel tempo hanno però assimilato senza patemi e sfruttato l’elezione diretta del presidente regionale, così come il premio di maggioranza, per blindare il governo della Regione. Cioè regole storicamente invise alla sinistra.
Del resto l’esperienza a livello comunale, con l’elezione diretta dei sindaci e il premio di maggioranza, messa in campo nella prima metà degli anni 90, ha dato buona prova di sé, guarendo molta dell’instabilità che aveva caratterizzato per anni tanti consigli comunali. Per questo è stata “esportata” verso le Regioni. Tuttavia, con la sola eccezione della Toscana, ad oggi nessuna Regione ha previsto il ballottaggio tra candidati presidenti, come invece avviene per i sindaci nei comuni sopra i 15mila abitanti.
L’altro paradosso è semmai che da tempo si è stabilmente realizzato, dai Comuni alle Regioni, quello che a Roma alcuni partiti inseguono da decenni come “santo Graal” della politica italiana senza riuscirci, ovvero l’elezione diretta del capo del governo o dello Stato. Giorgia Meloni ci vorrebbe provare, con l’elezione diretta del “premier”, ma c’è chi giura non le porterà bene, come il Graal trovato e riperduto nel celebre film “Indiana Jones e l’ultima crociata”.
L’“autonomia differenziata” comunque esiste, eccome se già esiste, proprio nel terreno delicatissimo delle norme per rappresentare la volontà popolare. Chi oggi resiste all’autonomia differenziata, se l’è però già presa – e in abbondanza – sulle regole elettorali. In estrema sintesi, le differenze più corpose tra Regioni sono nelle diverse percentuali del premio di maggioranza previsto, nella facoltà del voto disgiunto (non previsto in alcune Regioni), nei numeri dei consiglieri regionali diversificati e nelle soglie di sbarramento.
Il voto disgiunto, ovvero la possibilità di votare per un partito e nel contempo anche per il candidato presidente di una coalizione rivale – possibile in Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto ma non in Abruzzo, nelle Marche, in Umbria e in Basilicata –, ha prodotto un recente e noto paradosso in Sardegna. Il centrodestra ha avuto la maggioranza dei consensi, superando di 40mila voti la sinistra, ma ha vinto, di soli 3mila voti, il candidato presidente della sinistra. Prova evidente che diversi elettori del centrodestra hanno votato per il presidente “rivale”. Il senso storico della norma, inventata per i sindaci, era per forzare i partiti e le coalizioni a scegliere i candidati migliori. L’esito pratico tuttavia può anche essere un sovvertimento della volontà popolare maggioritaria.
Elencare e discutere tutte le altre diversità nei sistemi elettorali regionali sarebbe lungo. Variano, come accennato, le soglie di voto per entrare nelle assemblee legislative. Variano i numeri dei consiglieri eletti previsti. Le uniche Regioni che hanno agganciato il loro numero al variare della popolazione sono Veneto e Friuli. Uno ogni 100mila abitanti in Veneto e uno ogni 25mila in Friuli. La Lombardia, la regione più popolosa, ha 80 consiglieri – meno di uno ogni 100mila abitanti – ma, in proporzione alla popolazione, la Val d’Aosta batte tutti: ha 28 consiglieri per poco più di 120mila abitanti. L’Emilia-Romagna ebbe un sussulto statutario, vent’anni fa, portando a 65 i propri consiglieri, ma poi se ne vergognò e fece marcia indietro, a seguito di una campagna stampa. Variano anche i numeri dei premi di maggioranza: più alto in Lombardia, come percentuale prevista, più basso in Veneto.
Molto controverso il numero dei mandati dei presidenti, fissato in due dalla norma nazionale già nel pieno delle lunghe stagioni presidenziali di Formigoni ed Errani. Non è per ora recepito in alcune leggi regionali. È tema che agita da tempo le vicende del presidente del Veneto (arrivato al terzo mandato) e della Campania (avrebbe già “esaurito” il secondo giro, ma brama il terzo).
L’ultima particolarità storica che va registrata in Emilia-Romagna è che il sistema elettorale proporzionale tra i partiti in lizza, ancorché su basi circoscrizionali provinciali, oggettivamente favorisce il collegio bolognese, il più grande come corpo elettorale, perlomeno per i partiti più piccoli. Nel complicato gioco dei resti questi sanno che verosimilmente – ovviamente oltre una certa soglia di voti – scatterà il seggio bolognese, spesso a scapito della Romagna e della sua rappresentazione numerica nel parlamentino di viale Aldo Moro a Bologna.
È una lamentazione ricorrente, la sotto-rappresentazione della Romagna, che non ha però ancora trovato una soluzione. Andrà anch’essa a sommarsi alla sofferta frustrazione del post-alluvione, il grande e per ora indecifrabile fattore che aleggia sul voto regionale.
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