La sinistra emiliana e bolognese, il Pci prima e i post-comunisti poi, devono il loro potere così durevole e inscalfibile molto più di quanto si pensi ad una parte del mondo cattolico ed alla vecchia Dc. Lo dicono i fatti e la storia, anche recente. Nel dopoguerra, se Giuseppe Dossetti – allora figura chiave della Dc nazionale e locale, candidato sindaco riluttante – avesse accettato di allearsi ai monarchici ed alla destra sociale, il Pci avrebbe potuto perdere le prime elezioni amministrative a Bologna. La storia italiana sarebbe stata diversa, non solo quella di Bologna, divenuta invece nel tempo la città simbolo dell’amministrazione “progressista”.
C’è chi obietterebbe subito e legittimamente che sarebbe stato chiedere troppo a un Dossetti, uomo della Resistenza, di poter aprire un fronte di alleanze a destra. Resta il fatto che non era incontrovertibile che Bologna fosse quella che è poi diventata. Dossetti, nel suo intimo, aveva già iniziato a maturare la vocazione religiosa, che lo portò anni dopo a ritirarsi della vita politica, salvo “obbedire” al cardinal Giacomo Lercaro che gli chiese di ricandidarsi sindaco, senza successo, nel 1956. Lercaro, allora, sperava realmente nella sconfitta dei comunisti.
Ma un apporto più significativo, alla sinistra emiliano-romagnola, arrivò dal mondo democristiano nel pieno della crisi dovuta a Tangentopoli della prima metà degli anni 90. Di fronte alla frantumazione del partito democristiano, travolto da inchieste e crisi, gran parte del ceto politico democristiano regionale, precedendo la scelta ulivista di Romano Prodi, si posizionò a sinistra in vista delle elezioni amministrative del 1995, quelle che portarono alla guida della Regione Emilia-Romagna Pier Luigi Bersani. A quella deriva a sinistra degli ex Dc aveva fatto eccezione, poco prima, un allora giovane democristiano bolognese, Pierferdinando Casini, già parlamentare di lungo corso. Casini, con alcuni seguaci uscito tra i primi da quella Dc, dopo una lunga marcia da protagonista a centro-destra, è tornato al rito bolognese in anni recenti.
La merce politica di scambio, per quell’alleanza degli anni 90 tra ex Dc e post-comunisti, furono una serie di aperture e finanziamenti al mondo delle scuole materne paritarie e il ruolo di presidenti di provincia a diversi ex democristiani (ad esempio a Parma, Rimini e Ferrara) più nel tempo alcuni assessorati regionali. In quel frangente storico, senza l’alleanza e il voto di quel mondo post-democristiano e di parte dell’elettorato cattolico, l’Emilia-Romagna avrebbe potuto cambiare in modo radicale la sua carta d’identità politica.
Non è secondario che Prodi, con la sua avventura dell’Ulivo, sia emiliano e bolognese d’adozione. L’operazione prodiana aveva ovviamente un intento politico e culturale rilevante: spingere definitivamente i post-comunisti e la sinistra in genere a diventare una socialdemocrazia matura, quasi una nuova Dc sotto mentite spoglie, coltivando il sogno di una democrazia italiana dell’alternanza autentica e pacifica. Se Matteo Renzi abbia rappresentato in qualche modo un vertice, provvisorio, di questo ambizioso progetto, è discutibile e discusso. Resta il fatto che l’animo profondo del Pd l’ha rigettato.
Oggi quel Pd che avrebbe dovuto evolvere e superare certe tinte ideologiche che ancora lo caratterizzano è guidato da Elly Schlein. Agli antipodi del sogno ulivista e del moderatismo politico.
Quel sogno di modificare il Dna del Pd ricompare comunque carsicamente, anche in questo frangente elettorale regionale. Il messaggio in codice, rilanciato pochi giorni fa ad esempio dal sempreverde Casini, è quello di premiare i moderati, a sinistra. Moderati che il Pd ha sempre trovato pronti al reclutamento, casomai pescando da alcune realtà ecclesiali.
Che cosa però hanno “portato a casa”, questi ex democristiani, in tutto questo costante patteggiare con la sinistra e il Pd, carriere personali a parte? Questa è una domanda politica seria, non polemica. È cambiato il Pd o sono cambiati loro? La manovra degli anni 90 regalò anni di vita politica e relative poltrone ad un piccolo ceto politico, con alcune minime concessioni iniziali su temi qualificanti per il mondo cattolico, in campo scolastico, poi sepolti nel tempo da altre scelte. Basti pensare alla discussa e controproducente “legge Bastico” del 2003 sul sistema scolastico, a certe scelte valoriali laicistiche nello statuto regionale, o amministrative su temi etici caldi come pillola abortiva, fine vita, genderismo.
Tuttavia i propugnatori cattolici del posizionamento a sinistra mantengono costante il vecchio sogno di poter condizionare il Pd, e teorizzano in privato la necessità di essere pronti al “dopo-Schlein”. Illusione? L’urna elettorale può darsi li premi, nel breve periodo, ma il vero tema è la prospettiva a lungo termine, se porterà a qualcosa oltre singoli interessi di carriera, cioè a una prospettiva politica per il bene reale del Paese.
Di certo Elly Schlein, che gli ex Dc non avevano visto arrivare, oggi come oggi non ha evidentemente nessuna intenzione di cedere il passo, men che meno sui grandi temi ideologici che la caratterizzano. Temi che in definitiva sono stati introitati e ben accolti anche da non pochi cattolici.
Molto del perché di queste alchimie politiche e culturali si chiarirebbe rileggendo una lezione dimenticata, quella che ci lasciò Ettore Bernabei – un uomo centrale nel potere democristiano fino agli anni 80 – nel suo dialogo con Giorgio dell’Arti, L’uomo di fiducia. Bernabei spiegava acutamente che la vera causa del declino della Dc, fin dagli anni 70, era sul piano culturale, ovvero nel fatto che la classe dirigente di quel partito, in uno strisciante e crescente complesso di inferiorità, si era intimamente convinta che il futuro sarebbe stato degli “altri”. E la politica democristiana diventò così spesso un tentativo, a base di clientele diffuse, di rallentare il più possibile quel futuro temuto ma pensato inevitabile. La DC di De Gasperi si era posta un compito di ben altra portata: ricostruire un Paese distrutto.
Oggi qual è la speranza che muove dei cattolici ad un impegno politico?
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