Non ho visto in tv il “duello” Bonaccini-Borgonzoni: da alcuni resoconti di stampa sembra che la partita si sia risolta in un 1-1 o 0-0, se si fa riferimento ai dati non entusiasmanti dell’auditel e che, sul piano dei contenuti, si sia replicato lo schema ormai noto: la sfidante più “politica” e convinta del valore dell’appoggio del suo leader, il presidente uscente impegnato a rivendicare, numeri alla mano, la bontà della sua gestione amministrativa e a tenere lontane dalla competizione elettorale le questioni nazionali, convinto di non aver nulla da guadagnare dalla sua identificazione con un partito che si trova sulle spalle la responsabilità di una manovra finanziaria giudicata negativamente praticamente da tutti: dalla Corte dei Conti a Confindustria, dal sindacato ai lavoratori autonomi.



Fa abbastanza impressione, infatti, che nei manifesti che invitano alla prima grande manifestazione a favore di Bonaccini, ai primi di dicembre, campeggi l’immagine del presidente, senza simboli di partito e con scelte grafiche distantissime da quelle tradizionalmente usate dal Pd. Una vera e propria operazione di mimetizzazione: mentre le sardine si stipano nelle piazze emiliane, qualcuno cerca di nascondersi sotto la sabbia, come una platessa o una vongola.



Nonostante tutti gli sforzi di tenere lontana la politica nazionale, questa condizionerà inevitabilmente queste elezioni, perché è evidente a tutti che la sopravvivenza del Conte bis è legata alla capacità del Pd di conservare le guida dell’Emilia-Romagna, ma le forze politiche che ambiscono a strappare la guida della regione devono avere il coraggio di sfidare il presidente uscente anche sul terreno dei numeri, come lui desidera. Perché se sono veri alcuni dati, ripetuti da Bonaccini come un mantra, che attribuiscono alla regione Emilia-Romagna posizioni di primato su alcuni indicatori economici, tuttavia non sono assolutamente sufficienti a giudicare la qualità di un’amministrazione pubblica. Tra l’altro la lettura di alcuni dati finanziari riguardanti le amministrazioni pubbliche della regione possono aiutare a fare un po’ di chiarezza su una questione di grande attualità, quella della autonomia delle regioni, che questo Governo, con il ministro Boccia, espresso proprio dal partito di Bonaccini, sta portando su un binario sostanzialmente morto.



Una recente analisi, fatta dall’ufficio studi della Confcommercio, sulla spesa pubblica regionalizzata ha offerto degli spunti interessanti che, adeguatamente utilizzati, potrebbero anche suggerire qualche linea d’azione a chi, in via XX settembre, sta cercando qualche risorsa per far ripartire l’economia del Paese. Mentre il dilettantesco Governo giallo-rosso sta inventando ogni tipo di balzello, per raggranellare poche centinaia di milioni di euro, rischiando di mandare in crisi interi comparti produttivi, questo studio giunge alla conclusione che l’attuale livello di servizi offerti dagli enti pubblici territoriali potrebbe essere raggiunto con un risparmio di circa 66 miliardi di euro. Se invece si volesse offrire a tutti gli italiani, senza distinzioni fra nord e sud e fra aree sviluppate e aree svantaggiate, il livello quali-quantitativo migliore, che è quello del Trentino-Alto Adige, il risparmio potrebbe essere di circa 6 miliardi.

Le amministrazioni pubbliche territoriali dell’Emilia-Romagna, fatta 100 la performance quali-quantitativa del Trentino A.A., si collocano al quinto posto, con un indice di 82,4, dietro Lombardia, Friuli-Venezia Giulia e Val d’Aosta, ma con un eccesso di spesa di 1 miliardo e mezzo di euro, che dovrebbe essere reinvestito sui territori, per ottenere l’output del Trentino A.A.: detto in altri termini, se in Emilia-Romagna ci fosse una amministrazione pubblica efficiente, con le stesse risorse i cittadini potrebbero avere più servizi e di migliore qualità.

Ma il dato ancora più interessante che si evince da questo studio è che alcune aree del Paese hanno più risorse, per un totale di 11,2 miliardi, di quelle che sarebbero necessarie per avere i servizi del Trentino, con una gestione efficiente: Trentino A.A (2,8), Friuli V.G. (1,1), Val d’Aosta (0,5), Liguria (0,6), Sardegna (1,9), Calabria (2,1), Sicilia (2,2). Al contrario, dei territori hanno meno del necessario: Lombardia (2,6 miliardi), Veneto (0,4), Lazio (0,6), Puglia (1), Campania (1,8).

Com’è facile vedere, alla luce di questi numeri, anche la questione dell’autonomia assume un carattere molto diverso, rispetto alla narrazione che qualcuno, in casa Pd e M5s, vuol far passare, secondo la quale tutto si risolverebbe nello scontro fra un nord sviluppato ed egoista che vuole andarsene per conto suo, contro un sud povero e penalizzato, abbandonato a se stesso. Se mancano 1 miliardo e 800 milioni alla Campania, non è perché li ha portati via l’”egoista” Lombardia, ma perché ne ha 2,2 in più la Calabria; se alla Puglia manca 1 miliardo, non li ha scippati il Veneto, ma sono finiti in Sicilia…

Ma questi stessi numeri evidenziano un altro aspetto del problema: è facile constatare che quasi tutte le risorse in eccesso, con l’eccezione della Calabria, sono allocate in Regioni a Statuto speciale e questo dovrebbe spingere il Parlamento a rivedere la questione delle “specialità”, senza penalizzare quei territori, ma nello stesso tempo senza permettere spreco di risorse: uno dei motivi per cui la riforma costituzionale promossa da Renzi, fortunatamente bocciata col referendum, non era condivisibile è che, avendo previsto il necessario consenso di ogni regione “speciale” a qualsiasi modifica al proprio statuto, avrebbe reso di fatto per sempre immodificabile lo status quo.

La Regione Emilia-Romagna, con il Presidente Bonaccini, ha fatto bene a unirsi a Lombardia e Veneto per dare attuazione alla Costituzione che, all’art. 116, prevede che le Regioni che vogliono possano concordare con lo Stato competenze maggiori rispetto a quelle già loro assegnate, ma sbaglia quando rifiuta di aprire un confronto anche sull’art. 119 e sulla legge attuativa del federalismo fiscale, facendo proprie le titubanze del Pd che su tale materia ha al proprio interno posizioni contrapposte, determinate da un errato concetto di solidarietà, che rischia di ridursi a difesa di amministratori incapaci o pressappochisti: è emblematica di questa confusione che regna in casa piddina la posizione espressa recentemente in un convegno da un collega di Bonaccini, il presidente della Toscana Enrico Rossi, che ha minacciato un ricorso alla Corte costituzionale contro l’Emilia-Romagna, nel caso facesse accordi col Governo non per avere più risorse, ma addirittura se cercasse di consolidare la spesa storica.

Se dalle elezioni regionali uscirà una amministrazione omogenea a quelle che già governano quasi tutto il Nord è sperabile che anche l’Emilia-Romagna possa dare un contributo fattivo perché si attui finalmente quel federalismo fiscale che potrebbe spingere tutte le amministrazioni pubbliche a competere in termini di efficienza e qualità dei servizi.

L’attuale sistema, fondamentalmente centralistico, consente allo Stato e al Parlamento di dare disposizioni analitiche e cogenti agli amministratori locali, così da consentire a chi amministra male di trovare infinite scappatoie e giustificazioni, scaricando la responsabilità su un groviglio di norme, spesso contraddittorie, che condizionano pesantemente l’autonomia decisionale dell’amministratore stesso. Una vera autonomia costringerebbe tutti ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte, affrontando il giudizio dei cittadini-elettori, senza possibili vie di fuga.

Allora qualcuno dovrebbe finalmente spiegare perché non fa nuovi investimenti in strutture sanitarie, mentre altri realizzano ospedali a 5 stelle, o perché, ricevendo dai fondi europei miliardi di euro, ne spende solo poche centinaia di milioni, restituendo il resto all’Europa, o perché per garantire un servizio impiega il doppio del personale rispetto agli enti più virtuosi, o perché, infine, qualcuno riesce a realizzare strutture assistenziali all’avanguardia e qualcun altro, con le medesime risorse, lascia anziani e disabili totalmente in carico alle famiglie. Lo Stato dia parametri generali, finanziari e qualitativi, uguali per tutti e poi chieda conto con severità dell’uso fatto delle risorse.

Così si garantisce l’unità del Paese e l’uguaglianza dei cittadini; non livellando verso il basso tutto il sistema.