All’immediata vigilia delle elezioni in Emilia-Romagna, il Governo ha varato il provvedimento fiscale grazie al quale, dalla seconda metà dell’anno, aumenteranno i redditi dei lavoratori dipendenti. Non di molto (per quest’anno ci sono solo tre miliardi di euro) e non in modo equilibrato se è vero che ne trarranno vantaggio in modo particolare gli statali, o meglio gli impiegati dei ministeri. Tuttavia c’è anche il bonus Renzi che sale a 100 euro e dovrebbe avvantaggiare i salari medi dentro in 35-40 mila euro annui. Il parto è stato lungo, travagliato e la misura aggiunge confusione a un sistema fiscale già di per sé confuso. Il Governo giallo-verde ha voluto beneficiare i lavoratori autonomi con la cosiddetta flat tax al 15%, il Governo giallo-rosso sceglie le buste paga e modifica in peggio le imposte per le partite Iva. Ma tra bonus, detrazioni, esenzioni, tasse piatte e tasse alte come montagne, la giungla fiscale diventa sempre più fitta: nessun esecutivo appare in grado di mettere mano a quella riforma organica che, molti, a cominciare dal Governatore della Banca d’Italia, chiedono.



Affanno, debolezza e pasticci vari sono figli di scarsa capacità progettuale e di fragilità politica. Ciò riguarda entrambe le coalizioni che si sono alternate dalle elezioni politiche in poi. E il collasso del Movimento 5 Stelle rende gli equilibri parlamentari ancor più precari. Comunque vadano le elezioni emiliane, chiunque risulti oggi vincitore tra il Pd e la Lega salviniana, una cosa è certa: il Governo è destinato a navigare in mezzo alla tempesta. La destra sostiene che se vincesse in Emilia i giorni del Conte bis sarebbero contati. Ma è per lo più propaganda elettorale. Andare alle urne per il Parlamento oggi è pressoché impossibile: innanzitutto c’è in ballo il referendum per il taglio del numero di deputati e senatori, ma soprattutto non sappiamo con quale sistema elettorale si dovrebbe votare. Se Conte cadesse per mancanza di maggioranza, è molto probabile che il presidente della Repubblica aprirebbe consultazioni per un nuovo esecutivo e non scioglierebbe le Camere.



Ma attenzione, nemmeno una vittoria del centrosinistra è in grado di rischiarare gli orizzonti politici. Il Pd deve fare i conti con la crisi dei grillini non solo in termini di seggi parlamentari, ma di contenuti, di scelte governative che ormai sono diventate non più rinviabili. Prendiamo l’Ilva: il tempo è scaduto, gennaio sta per concludersi, bisogna scegliere. Che cosa si vuole fare non è chiaro e la diaspora pentastellata intorpidisce ancora le acque di Taranto.

Persino più ingarbugliato è il nodo autostradale. Il Governo si è spinto molto in là, eppure la revoca della concessione può essere una trappola micidiale. Non c’è solo la questione dei costi, c’è che il passaggio all’Anas è tutt’altro che facile: costoso anch’esso, richiede un consistente esborso di denaro direttamente dal Tesoro per ricapitalizzare un’agenzia ormai spolpata che non ha più nemmeno la dotazione tecnica sufficiente, come dimostra la vicenda dei viadotti siciliani ancora disastrati. Non solo: i vertici dell’Anas chiedono lo scudo legale per proteggersi dalle responsabilità del passato, proprio come chiedono i manager di Arcelor Mittal. Una revoca traumatica, inoltre, metterebbe in forse la sopravvivenza di Autostrade per l’Italia e il posto di lavoro per migliaia di operai, tecnici, impiegati. Il crollo di una delle principali società italiane avrebbe un effetto domino su Atlantia e sul gruppo che fa capo alla famiglia Benetton. Alla luce delle possibili ricadute scoiali ed economiche chi avrebbe l’ardire di sollevare lo scalpo in segno di vittoria?



E l’Alitalia? Di rinvio in rinvio, lo Stato (cioè contribuenti e risparmiatori) tiene in vita con prestiti prorogati di mese in mese una compagnia che da sola non è in grado di sostenersi. Il balletto dei partner possibili s’è rivelato una pantomima. Nessuno vuole prendersi l’Alitalia così com’è. Il Governo ha solo due scelte: lasciarla fallire o assumersi tutti gli oneri di una sua ristrutturazione. Che vuol dire tagli del personale.

Ilva, Autostrade e Alitalia rischiano di qui a un mese di diventare altrettante fabbriche di “esuberi”, cioè di licenziamenti. Il costo sociale è evidente, ma lo è anche quello politico. Aggiungiamo anche le lacerazioni provocate dal provvedimento giustizialista sulla prescrizione e la pila di dossier ad alto rischio cresce ogni giorno che passa.

Il Governo si consola perché sul fronte esterno c’è tregua. Lo spread è sotto controllo, i mercati finanziari sono inquieti come sempre, ma per colpa dei dazi di Trump o magari dell’impatto che la nuova epidemia avrà sulla Cina e sul resto dell’economia mondiale. Insomma, l’Italia non è oggi nel mirino, ma resta sempre un Paese sorvegliato speciale, com’è emerso dalla conferenza stampa di Christine Lagarde giovedì scorso. Crescita zero e debito troppo alto creano una miscela ad altissimo rischio, mentre la Banca centrale europea s’appresta a rivedere le sue priorità di qui ai prossimi mesi.

Ciò dovrebbe spingere la politica italiana a serrare le fila, invece è sempre guerra di tutti contro tutti.