Frans Timmermans, sulla carta, sembra poter contare in partenza in Italia su un solo elettorato sicuro: i tifosi della Roma, la squadra del cuore ufficiale dell’attuale “primo vicepresidente” della Commissione Ue. Ma gli scontri del 2015 fra fan giallorossi e del Feyenoord hanno lasciato il segno. Non è quindi detto che il politico olandese riscuoterebbe consensi calcistici neppure nella capitale italiana se — come s dice con più insistenza — sarà lui lo spitzenkandidat del Pse per il prossimo rinnovo dell’euro-parlamento e quindi della commissione di Bruxelles. Neppure l’ultima apparizione di Timmermans a sud delle Alpi sembra comunque aver assecondato l’attuale zeitgeist politico in Italia.



L’ex ministro degli Esteri dell’Aja si è fatto vedere al recente Forum Ambrosetti di Cernobbio, covo assediato delle élite globaliste. E non ha certo sorpreso gli osservatori, anzi. “Buone le aperture sulle regole Ue (del ministro dell’Economia Tria, ndr), l’Italia deve stare attenta allo spread”. Per il numero due di Jean-Claude Juncker a Bruxelles, non c’è nulla di nuovo sotto il sole dell’Unione Europea: c’è la solita Italia malaticcia — al guinzaglio dei mercati e delle eurocrazie — e i soliti Paesi del Nord pronti a dare lezioni, a comminare penitenze, a dare per scontato il loro ruolo-guida, anche quando in teoria e in pratica decidono gli elettori.



In Timmermans sopravvive anche l’Olanda di sempre, nel suo ruolo storico di fiancheggiamento anti-italiano della Germania (dal primo presidente Bce Wim Duisenberg al commissario Antitrust Neelie Kroes, fino all’eurodeputata hippie Judith Sargentini, bestia nera dei Viktor Orbán ma anche dei sovranisti italiani). Ma chi, non solo in Italia, potrebbe comprare nelle urne una “Europa usata” offerta da Timmermans?

Pochi giorni dopo lo smazzo di una prima candidatura-civetta (un altro vicepresidente uscente a Bruxelles, lo slovacco Maros Sefcovic) il Pse ripropone il cliché rigido di un eurocrate contro l’ondata eurocritica: che invece il Ppe ha cercato di assorbire in modo elastico facendo uscire allo scoperto lo spitzenkandidat bavarese Manfred Weber. E se quest’ultimo vanta più di un’interfaccia possibile con gli elettorali sovranisti in Italia, Austria, Spagna e Paesi di Visegrad, né Sefcovic né Timmermans sembrano per ora innestati in alcun reale progetto politico. Non lo è il Pse, debole o in lotta per la sopravvivenza in tutti i grandi Paesi Ue. Ma non lo è ancora il “fronte democratico” di cui si è autonominato leader il presidente francese Emmanuel Macron.



Un fronte che — secondo il segretario reggente del Pd italiano, Maurizio Martina — dovrebbe attraversare la penisola per raggiungere il premier greco Tsipras. Macron sembra ora essersi dato un mese per serrare le fila quanto meno di un cartello elettorale anti-Ppe. Vedremo con quale spitzenkandidat vero. Magari un non eurocrate. Magari un italiano (e ogni riferimento all’ex premier Enrico Letta, oggi direttore della Scuola di Affari internazionali di Science Po a Parigi non è intenzionale: è solo dettato dai fatti). Magari con una pluralità di “candidati di punta” alla guida di una coalizione transnazionale.

Stefano Folli non ha fatto male a rilanciare il brand europeista e laico-liberale di Emma Bonino: capace lo scorso 4 marzo di tenere gli spazi a Milano centro, nella sterminata prateria verde-leghista. Certo meglio sarebbe che la leader radicale troncasse i rapporti con George Soros: il finanziere apolide di origini ungheresi è diretto corresponsabile della reazione orbanista a Budapest e resta lo speculatore selvaggio che affondò la lira nel 1992. Nessuno oggi in Europa può apprezzare le sue prediche postume sul crack Lehman, come quella comparsa sabato sul Sole 24 Ore.

Certamente le forze che temono l’avanzata sovranista e desiderano contrapporvisi sembrano obbligate a giocare sulla difensiva: con leader profilati e facce pulite disposte a condurre una campagna elettorale finalizzata esclusivamente a “perdere bene”. Poco più di cent’anni fa, l’Italia combatté e vinse sul Piave una battaglia difensiva: la più importante della Grande Guerra sul suo fronte. Sicuramente al centro-sinistra europeo (qualunque cosa voglia dire nel 2019) serviranno più di cinque mesi per arrivare al proprio Quattro Novembre. Ma non ha scelta che cominciare a convincersi che si può fare. Ricordando comunque che potrà essere solo una cosa diversa dallo Yes we can di Barack Obama nel burrascoso 2008. Dietro di lui ci furono allora i fiumi di quattrini dei fat cats di Wall Street, terrorizzati all’idea che il successore di George W. Bush chiedesse loro il conto del grande crack, come Roosevelt negli anni Trenta. E certamente John McCain, il candidato-presidente repubblicano, non sarebbe stato così prono nel dopo-crisi come Obama. Ma fu lasciato solo anzitutto dai grandi finanziatori. Per questo il recente funerale dell’eroe di guerra del Vietnam — trasformato in ipocrita liturgia anti-Trump — ha confermato quanto profonda sia la crisi politica globale di ciò che un tempo si chiamava “sinistra democratica”.