E adesso? Archiviata una campagna elettorale dai toni alti e dai contenuti miseri si profila, dopo tanti rinvii, l’ora delle scelte quello che, con tenacia degna di miglior causa, i duellanti al governo hanno cercato in ogni modo di esorcizzare con la logica del rinvio, quella che sta consigliando al Tesoro di posticipare di qualche mese il varo di Btp Italia dato il sospetto (sensato) che i risparmiatori non siano ansiosi di scommettere sulla tenuta della finanza pubblica.
La congiuntura, insomma, sembra suggerire la necessità di un rapido cambio delle priorità, una volta esaurita l’interminabile stagione elettorale. A partire dallo scenario internazionale in rapido deterioramento. La guerra dei dazi tra Cina e Usa si è ormai trasformata in una guerra tout court, per quanto incruenta. Washington non fa mistero di voler fermare l’espansione cinese finché c’è tempo. Pechino ha smentito una volta per tutte quegli osservatori che prevedevano che il progresso tecnologico e l’evoluzione della società avrebbero cambiato la natura del regime. Al contrario, il progresso tecnologico ha consentito a Pechino di rafforzare le basi del consenso senza nulla concedere alla leadership ideologica dell’Occidente. Anzi, il progresso nel 5G così come nell’intelligenza artificiale è servito finora a rafforzare la fiducia del sistema, ormai convinto di poter fare a meno della democrazia all’occidentale.
Il mondo è così entrato nel remake della Guerra fredda, con alcune novità di rilievo. La vecchia Unione Sovietica, che pure fu in grado di muovere per prima alla conquista dello spazio, non aveva un’economia in grado di competere con gli Stati Uniti. Altra cosa è la Cina di oggi. Di qui una sfida a tutto campo: gli Usa sono più forti, ma la Cina ha senz’altro una soglia di sopportazione del dolore, ovvero dei sacrifici che può imporre ai propri cittadini, ben superiore. E così lo scontro sulle merci si è esteso alle valute e ai titoli del debito Usa che Pechino promette di scaricare sui mercati.
Al di là degli episodi, la trama sembra ormai ben definita. Il mondo, liquidata l’era della globalizzazione, si avvia a una stagione di neomercantilismo o, comunque, di protezionismo. Non è detto che l’esito sia per forza un calo dell’economia o delle Borse. La crisi della globalizzazione impone alle potenze (e ai loro satelliti) di investire per colmare le lacune. Ma la cosa più importante è che, dopo decenni di primato dell’economia sulla politica, gli equilibri si sono rovesciati. Sarà la politica, e non viceversa, a dettare le scelte anche sul fronte delle Borse. “Voglio che la Fed mi risponda come la Banca di Stato cinese fa con Xi”, ha detto Trump. Ovvero la banca centrale deve fornire il denaro necessario allo Stato senza muovere obiezioni.
Sia Trump che Xi, del resto, possono vantare un ampio sostegno popolare a una politica aggressiva verso il “nemico”. Vale per gli Usa, dove i democratici non sono meno determinati dei repubblicani, vale per i cinesi, decisi a far valere il proprio orgoglio e la propria ritrovata potenza: sono le “tartarughe” (come in gergo sono soprannominati gli studenti che hanno frequentato le università Usa) i più determinati a reagire a Trump, come del resto ha fatto Jack Ma, il patron di Alibaba, che ha cancellato i suoi investimenti negli States.
La nuova realtà coglie impreparata l’Europa che negli ultimi decenni conosce una sola ricetta per crescere: esportare, una formula che nel prossimo futuro dovrebbe segnare il passo. Ma la Germania, troppo ricca per capire la necessità di un cambio rapido di paradigma, non è ancora a un cambio di rotta che privilegi gli investimenti all’interno dell’Ue invece che l’accumulo di uno sbalorditivo surplus commerciale che, oltre certi limiti, è più una zavorra che un valore.
In questa cornice non mancano i rischi per l’Italia, economia di trasformatori inseriti nel ciclo della manifattura tedesca, ma priva, causa l’ammontare del debito, della necessaria flessibilità per gestire la transizione. Sarebbe necessario concentrare gli sforzi sugli investimenti per assicurare un briciolo di respiro alle nostre imprese sui mercati vecchi e nuovi. Ma questo richiede capitali da destinare agli investimenti, quelli tagliati in questi mesi o quelli che non arriveranno causa i timori degli interlocutori internazionali. Finita la ricreazione, da lunedì i nodi arriveranno al pettine.