Il popolo non è solo un “No”. Da molti anni, in Italia e in altri grandi paesi del mondo, è in atto un processo contrastante. Da un lato le élite che vogliono comandare senza la faticosa mediazione delle politiche nazionali e dei corpi intermedi hanno ovunque intentato grazie a media e magistratura processi alla classe politica. L’hanno screditata, spesso ma non sempre con buone ragioni, e additata agli occhi dei popoli come causa di ogni corruzione e male. Da noi nel 1992 pochissimi, tra cui don Giussani, dicevano che non sarebbe venuto del buono da tutto questo. Il termine “casta” coniato in Italia dal giornale delle élite economiche e culturali è stato usato per colpire una gran parte della classe politica.
Quel malcontento popolare è montato e si è espresso in vario modo. Ma le sue radici vengono da lontano, da certe false promesse non mantenibili, come vide già De Tocqueville nel 1840, su cui si fonda la democrazia liberale, e la sua nuova versione chiamata globalizzazione. La promessa della “felice autonomia dell’individuo” si è rivelata in molti casi crisi e schiavitù economica di persone e popoli, creando una specie di cittadino “fanciullo” in balia a scontento e idee confuse.
Molto tempo s’è perso, energie smarrite, occasioni sprecate, mezza Italia svenduta. Ma ora, insorgendo nuovi leader, nuovi problemi e nuovi media, quel malcontento si è coalizzato a volte in modo brusco contro le stesse élite che pensavano – dopo averlo aizzato – di guidarlo e che ora lo bollano come “populismo”. Il problema riguarda tutte le istituzioni, Chiesa compresa. Il termine populismo è ambiguo. Ogni leader, politico o religioso, ha un lato “populista”, cioè rischia di dare messaggi semplificati e indirizzati dal consenso.
Continuare a dare del popolo una idea solo protestataria, è una menzogna comoda per le élite che vogliono in pochi governare molto e campare su falsi miti. Ridurre il popolo a sudditi che protestano o si intrattengono e campicchiano sotto il balcone del re è un sogno delle oligarchie di sempre. Invece sappiamo (perché lo vediamo) che nel nostro popolo ci sono forze costruttrici, creatrice di legami e che affrontano problemi piccoli e enormi. A questa risorsa la politica deve dare più spazio, voce e strumenti. Passare da una politica screditata a una politica di stampo veterostatalista che vuole occuparsi di tutto sarebbe un disastro.
Non di sola economia… Agitata come la questione più rilevante per cui restare entro la Ue, l’economia si rivelerebbe, dinanzi alla alleanza Russia-Cina, alla Brexit, alla forza Usa, forse il primo buon motivo per allontanarsene. L’Europa deve andare oltre l’attuale Ue, diventare come già indicava Giovanni Paolo II una terra di forti identità “dall’Atlantico agli Urali”, se no è un debole fantoccio bancario. Se il problema è attaccarsi a un carro che tira, visti la depressione demografica, le sperequazioni nord sud etc., forse meglio attaccarsi ad altri. Il modello di welfare protettivo ha valori e vantaggi, ma non ha impedito l’invecchiamento del continente. L’economia italiana ha crepe, specie in alcuni territori, ma è tutt’altro che morente. I modi per farla camminare ci sono. Possiamo dare un contributo, se non è troppo tardi, a una economia europea ispirata a una libertà temperata. Più possibilità di iniziativa, fuori da troppi vincoli fiscali e burocratici, e attenzione ai più deboli. Ma non si deve dimenticare che la perdita di vitalità economica non è mai dipendente da cause interne all’economia. E che separare l’economia e usarla come unico metro per valutare una società è fuorviante.
Identità, il “problemone” tra gender e sagre di paese. La risposta più adeguata al problema dell’identità è la partita aperta nella cultura e nella società europea da oltre quattrocento anni: dal Cogito ergo sum (penso e perciò io sono) di Cartesio alla domanda suprema di Leopardi alla luna “e io che sono?” e via via fino alle disperate visioni dell’“oltreuomo” di Nietzche e alla presunzioni di “autodeterminarsi” a seconda di desideri che divengono diritti, persino a costo di manipolazione genetiche e di pratiche di affitto di corpi altrui.
Tanto più in Europa di fatto si nega – negli statuti e nella cultura dominante – la dimensione religiosa della identità umana, secondo cui il mio io e il suo valore intangibile sono fondati nel rapporto con l’infinito di un Dio creatore, tanto più va in scena la triste fiera delle mille identità possibili. Dove tutto può essere chiamato identità (dalle tendenze sessuali, al nazionalismo, ai gusti musicali) si fa largo l’ipocrisia del politically correct, e si prepara lo scontro. Non importa se per affermare mille identità occorre da un lato violentare dati di realtà, diritti di più deboli, censurare evidenti contraddizioni, o dall’altro risultare anacronisti e rifugiarsi nel passato. Si grida ovunque “identità!” e intanto non a caso si assiste a una crescita di fenomeni di ansia, con riflessi sociali evidenti. Nessuna identità parziale è adeguata all’io, che soffre in vario modo sotto maschere soffocanti. L’Europa esiste in quanto culla e difesa del valore infinito della persona umana, centro del messaggio cristiano, contro ogni tipo di fondamentalismo politico, economico, teologico o tecnocratico. Senza rinnovata identità religiosa laicamente espressa l’Europa diviene solo una locanda secondaria, peraltro incapace di evitare guerre entro i suoi territori o ai confini (dalla ex-Jugoslavia alla ex-Libia).
UE ovvero Urgenza Educativa. In questi anni, abbiamo avuto ingenti interventi in campo educativo dell’Unione Europea, orientati a favorire equiparazioni di standard e scambi internazionali. Dal punto di vista del metodo e dei contenuti educativi, non si sono avuti passi in avanti verso una maggiore libertà di educazione o alla educazione del gusto dei giovani, ma si è assistito al dominio espansivo dell’abilitazione tecnologica e del relativismo antropologico. Le scuole italiane ad esempio, sempre in debito, hanno investito milioni di euro in lavagne tecnologiche inutili specie alle Medie e Superiori. La conseguenza è una crescita dell’omologazione culturale, favorita dal pensiero unico politically correct vigente nei colossi dell’intrattenimento e che detengono i social. Occorre cambiare passo. Che i popoli europei ritrovino, in un grande sforzo educativo di nuove generazioni frutto di nuovi e antichi meticciati, le radici e le nuove fioriture degli ideali che hanno generato le meraviglie dell’arte, della scienza e della economia sociale. Le cose che han reso grande, in una storia travagliata, l’Europa. Questo compito passa per la casa, la scuola, le priorità di tutti.
Una alleanza tra i partiti di ispirazione popolare come il Ppe e le nuove forze che vogliono rinnovare l’Europa – e che peraltro rappresentano oggi molti dei loro elettori scontenti (come la Lega in Italia) – dovrebbe lavorare per una nuova identità e ruolo. E apporti possono venire da ogni parte. Voteremo e invitiamo a votare i candidati che son vicini queste idee e vogliono realizzarle.
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(“Amici di Marzo” è un’associazione libera di persone impegnate nella società, nella cultura e nell’impresa in varie parti di Italia da nord a sud)