Semplificare l’accesso ai fondi europei, migliorare le opportunità lavorative per i giovani per disincentivare le «fughe» all’estero, rilanciare il dialogo con i paesi della sponda sud del Mediterraneo. L’agenda con cui Cherima Fteita Firial, candidata nella lista di Forza Italia nella circoscrizione dell’Italia nord-occidentale, sta affrontando la campagna elettorale per il Parlamento europeo è dettata soprattutto dalla sua esperienza di rapporto costante e quotidiano con le comunità locali, le imprese, il territorio e dalla sua storia personale. Già funzionaria per molti anni del Ministero dell’Economia e poi assessore alle politiche giovanili ad Alessandria, è figlia di un diplomatico libico e di madre italiana, e guarda perciò con grande interesse alla necessità di riattivare un dialogo con l’Africa da troppo tempo abbandonata dall’Europa.



Mai come oggi l’Unione europea ha messo a disposizione dell’Italia attraverso il Pnrr una tale quantità di fondi, eppure lei sottolinea che molte realtà rischiano di non riuscire a beneficiarne. Perché?

Sì, c’è un grosso problema di accesso ai fondi europei. Nei frequenti contatti che ho con i piccoli comuni e con il mondo delle imprese questa difficoltà è molto sentita. Le aziende hanno infatti una grande esigenza di risorse per poter continuare a investire sui propri territori. Per gli enti locali l’urgenza è invece quella di continuare ad assicurare servizi all’altezza. E poi c’è anche l’associazionismo che svolge un ruolo fondamentale di aiuto alle persone soprattutto nelle aree periferiche, ma anche nella cura dei beni culturali. Per questo va sostenuto.



A cosa sono dovute queste difficoltà?

Tanti comuni piccoli, che sono quelli in maggiore sofferenza, hanno anzitutto carenze sul piano delle risorse umane. Hanno pochissimi dipendenti che devono farsi carico di tutta una serie di incombenze non inferiori a quelle di comuni di dimensioni più grandi che possono però contare su professionalità più strutturate. Gestire i bandi per l’accesso ai fondi europei non è semplice e i piccoli comuni non hanno al loro interno figure in grado di occuparsene restando così spesso tagliati fuori. Se vogliamo tener vive queste piccole comunità evitando lo spopolamento di intere aree del territorio, occorre facilitare l’accesso a queste risorse.



Il Pnrr sarebbe insomma fatto su misura per i grandi progetti?

«Io constato che ci sono difficoltà perché comunque i bandi sono complicati. Se non hanno una figura dedicata al loro interno, come spesso capita, le amministrazioni locali sono costrette a esternalizzare le funzioni progettuali con tutti i costi che ne seguono e senza neppure avere la certezza di riuscire alla fine ad accedere alle risorse previste dai diversi bandi. E questo costituisce in tante realtà un freno oggettivo a differenza dei comuni più grandi che sono maggiormente attrezzati. Ripeto, le grandi città e i grandi agglomerati non hanno problemi, mentre i piccoli si sentono abbandonati perché non hanno la forza politico economica per avviare determinate procedure. Dobbiamo tenerne conto.

C’è anche il problema di agevolare la permanenza dei giovani nei loro territori. Cosa si può fare?

«Avendo fatto l’assessore alle politiche giovanili ad Alessandria ho toccato con mano il fenomeno dei tanti giovani che vanno all’estero per lavoro. Il passaparola che sta circolando tra loro è che il loro futuro non è qua e questo è un motivo di preoccupazione. Noi abbiamo bisogno di questi ragazzi. Dobbiamo dar loro delle certezze che passano solo attraverso proposte serie. Occorre arrivare a formulare proposte di lavoro serie e durature, non nel senso del posto fisso ma della continuità di un percorso di crescita professionale che viene loro offerto valorizzando anche le loro passioni. Non è la prima volta che anche i cosiddetti neet, dopo un periodo di abbandono di ogni percorso scolastico o lavorativo, ritornano sui loro passi e stimolati da un interesse concreto accettano di mettersi alla prova. Del resto, oggi i giovani vanno all’estero per crearsi opportunità di lavoro migliori. Se continuiamo solo con la litania per cui in Italia le tasse sono più alte, che i primi sei mesi dell’anno si lavora per lo Stato, che se si assume un dipendente ti costa tre volte di più dello stipendio netto che riceve, tutte cose senz’altro vere, è evidente che un giovane percepirà il nostro paese come un contesto non favorevole. E allora le opportunità si cercano altrove.

L’impegno allora è a creare opportunità competitive con quelle che trovano in altri paesi?

Assolutamente perché abbiamo bisogno delle loro intelligenze, delle loro capacità lavorative. Mi ha colpito quanto dice il professor Galimberti: Einstein a 24 anni aveva già scoperto il principio di relatività e Leopardi a 21 aveva scritto “l’infinito”. A quell’età c’è una potenza creativa fortissima e non ci possiamo permettere di perderla tenendo i giovani parcheggiati in un limbo e lasciandoli andare all’estero perché là le opportunità sono migliori.

E per una donna il percorso spesso è ancora più complicato…

Per le donne gli ostacoli sono ancora dominanti specie in alcune categorie di lavoro. Personalmente ho avuto la fortuna di lavorare come funzionaria nel settore pubblico non vivendo direttamente questi problemi e sentendomi sempre alla pari dei miei colleghi. Nel settore privato so che invece persiste ancora un retaggio di disparità che penalizza le donne, soprattutto quelle che hanno famiglia. Questo sistema contribuisce, anche se non è l’unica causa, a determinare un ritardo da parte delle donne nel mettere su famiglia e ad avere figli con tutte le ricadute socialmente problematiche che ne seguono. Spesso sembra che una giovane donna debba dimostrare che la famiglia e i figli non le interessano per poter essere valorizzata al meglio nell’ambiente di lavoro. Purtroppo succede ancora così.

E l’Europa cosa potrebbe fare?

Possiamo anzitutto imparare da paesi come quelli del nord Europa, che su questi aspetti hanno prassi più avanzate cercando di trasferirle nel nostro paese.

L’Unione europea si è dimenticata dell’Africa con il risultato di lasciare campo libero ad altri protagonisti non certo interessati alla crescita e allo sviluppo di questi paesi. Non è ora di avviare una vera politica estera europea?

L’azione politica verso la sponda sud del Mediterraneo va indubbiamente rilanciata, ma soprattutto l’Unione Europea deve riconoscere il ruolo centrale che il nostro paese può svolgere in questo quadrante. L’Italia in passato ha sempre dialogato con i paesi del nord Africa che si affacciano sul Mediterraneo, questa è sempre stata la sua vocazione. A partire dagli anni ‘60 gli alti e bassi nello sviluppo dell’industria petrolifera hanno condizionato e talora stravolto il rapporto con questi paesi. Tutto questo non toglie che dal punto di vista degli approvvigionamenti energetici il nord Africa per noi rimanga strategico. E ne abbiamo bisogno in termini europei, non solo italiani. Il fatto che l’Italia abbia una relazione stretta con questi paesi è fondamentale per il futuro. Del resto, io, nel mio piccolo, ne sono l’esempio con quello che era un progetto di vita tra mio padre libico e mia mamma italiana. Un progetto familiare che sarebbe dovuto durare nel tempo se non fosse stato che mio papà (che era diplomatico della Libia al tempo di re Idris) purtroppo è mancato anzitempo. Siamo così rientrati in Italia, abbandonando un po’ quel progetto familiare. Nel frattempo, a partire dagli anni ‘70 si è via via fatto strada un atteggiamento di chiusura del mondo arabo verso l’Occidente.

Ora però bisogna riprendere i contatti?

Dobbiamo riallacciare i fili di un dialogo che si è interrotto. Occorre ritornare ad avere punti in comune. Sono paesi differenti ma abbiamo gli uni bisogno degli altri. Tutti i paesi dell’Africa hanno necessità di servizi che il mondo occidentale e noi italiani sappiamo fare benissimo. Penso a infrastrutture come ospedali, ponti, strade… Perché allora non ritornare a darci una mano per creare le migliori condizioni per lo sviluppo dell’Africa aiutando così anche le persone a trovare nuove opportunità di crescita nei propri paesi d’origine? È una cosa semplice che appare molto complicata perché le logiche internazionali oggi sono quelle di essere gli uni contro gli altri, però bisogna tentare con tutte le nostre forze. Se nessuno fa un passo indietro e va verso l’altro con il dialogo, rischiamo solo di innescare una spirale di scontri che non so come potrà andare a finire.

 

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