Il sistema elettorale a doppio turno ha accompagnato sin dalla sua origine la Quinta Repubblica francese, con la finalità di razionalizzare un quadro politico frammentato.
Ma in quest’ultima tornata sembra mostrare con particolare evidenza i suoi limiti dal punto di vista dei presupposti primi del sistema elettorale: la preposizione degli eletti ad un ufficio politico, con mandato rappresentativo, orientando l’esercizio di questo secondo direttive programmatiche.
In estrema sintesi, il double ballot prevede che, nei singoli collegi, il primo turno comporti l’elezione dei soli candidati che abbiano ottenuto la maggioranza assoluta dei voti (un quorum che, a ben considerare, può acquisirsi soltanto attenuando la definizione dei programmi elettorali, in modo da raccogliere un consenso molto esteso).
Ove non si abbia tale risultato, è previsto, appunto, un secondo turno, al quale accedono tutti i candidati che abbiano superato la soglia del 12,5% dei consensi, a meno che non si determinino a ritirare la loro candidatura.
Al secondo turno è eletto il candidato che abbia avuto la maggioranza relativa dei voti.
L’esiguità dell’intervallo temporale tra le due tornate e l’assenza di ogni vincolo di apparentamento, può determinare facilmente uno slittamento del voto verso un obiettivo tattico, piuttosto che strategico di orientamento programmatico e di direttiva politica.
È ben possibile, in altri termini, che si creino coalizioni in funzione puramente oppositiva, in assenza di ogni effettiva “base comune” quanto ad obiettivi e ad ideologie (i macronisti e la sinistra sono profondamente divisi e addirittura opposti su molti temi di primario rilievo politico) e, addirittura, con prevalenza, al loro interno, delle forze minoritarie.
È proprio quel che è accaduto in questi giorni: stando ai numeri, nella maggior parte dei collegi contendibili alla destra, hanno rinunciato i candidati del Nuovo Fronte Popolare, che pure, a livello nazionale, è risultato secondo per numero e percentuale di voti.
Il marcato “plusvalore” del partito del Presidente della Repubblica si deve non soltanto a ragioni lato sensu ideologiche (è ben noto del resto che lo stesso Macron si è più volte espresso in senso duramente critico nei confronti della sinistra), ma anche, e ovviamente, al vantaggio che esso ha per la posizione stessa del Presidente.
E qui si profila un elemento di complessiva incoerenza del sistema della Quinta Repubblica, alla luce dell’esperienza. Il sistema elettorale francese – stando alla letteratura sul tema – si presta a torsioni referendarie di tipo plebiscitario.
Questo del resto il fine manifestamente perseguito da Macron, con il repentino scioglimento dell’Assemblea Nazionale e la convocazione dei comizi elettorali a brevissimo termine.
All’indomani dei risultati del primo turno ci si poteva legittimamente e plausibilmente attendere che prendesse atto dei risultati e quindi della volontà manifestata dal corpo elettorale, dimettendosi.
All’opposto, il pur precario (e confuso) convergere su un obiettivo tattico (ostacolare un partito ritenuto sostanzialmente “incompatibile” con l’assunzione di funzioni di governo), ha rovesciato la direzione e l’oggetto del “plebiscito”: pronunciarsi su quel che si potrebbe approssimativamente definire come “legittimità repubblicana” del Rassemblement National.
Sembrerebbe che si voglia dare vita ad una sorta di conventio ad excludendum transalpina, che nulla però avrebbe a che vedere, per moltissimi aspetti, con quella dell’Italia della cosiddetta prima Repubblica.
Mi sembra che si notino agevolmente, per un verso, la equivocità dei due turni, la richiesta cioè di due pronunzie, la seconda quasi in funzione di revisione della prima istanza, alla ricerca di una sorta di maggioranza assoluta di opposizione (il partito maggioritario al primo turno, scavalcato da alleanze ampie nei numeri, ma fragilissime quanto ad identità ed obiettivi); il conseguente impoverimento del voto dei cittadini, forzato verso un effetto di mera investitura con “mandato in bianco” agli eletti.
Un assetto che potrebbe anche causare astensionismo: gli elettori vedono ridursi “le sacré du citoyen” ad una sorta di “like”.
Vale la pena di notare, inoltre, che, qualunque sia il risultato del secondo turno, il Presidente della Repubblica si troverà in posizione egemone: ove si confermasse la prevalenza della destra, le competenze dell’Eliseo in materia europea e di politica estera, oltre che le altre competenze che implicano una (pur difficilissima) coabitazione, consentirebbero a Macron di logorare gli avversari del RN, indebolendoli in vista delle prossime elezioni presidenziali; ove invece avesse la meglio l’alleanza tra NFP e partito del Presidente, questo farebbe (ovviamente) pesare il suo ruolo indebolendo gli avversari a sinistra.
Un’ultima notazione.
Imprimere una torsione agli istituti costituzionali è sempre un espediente rischioso. Tanto più in Francia, direi: si sta assistendo ad un confronto che assume in qualche caso i toni di una vera “prova costituente”, di selezione delle forze che una volta si dicevano “portatrici” del potere statale.
Proprio la storia di quel Paese ci dice che quando i francesi avvertono che la nazione, come comunità capace di autonomia e di autodeterminazione, viene minacciata ed è a rischio di sgretolarsi, dopo un primo disorientamento, reagiscono.
E da questo punto di vista, mentre domenica scorsa Bardella ha fatto un discorso rassicurante, Attal, invece, ha detto da Matignon, dunque in veste di capo del Governo, che “non un voto deve andare al Rassemblement National”.
In questo modo Macron viene percepito come un grande attore di dissoluzione identitaria; proprio l’operazione, estremamente pericolosa, che non si può fare con la Francia.
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