Emmanuel Macron asserragliato all’Eliseo ma ormai rassegnato ad abdicare dai pieni poteri con un pre-incarico a Bernard Cazeneuve, già premier socialista. Olaf Scholz non meno assediato, nella cancelleria di Berlino, dall’avanzata delle opposizioni antagoniste di destra e sinistra al voto locale in Sassonia e Turingia. È stata una domenica particolare quella di ieri: non solo per Francia e Germania, ma per tutta l’Unione Europea. Sono stati infatti i due leader dell’Europa “carolingia” gli affannati kingmakers di Ursula von der Leyen, che sta trasbordando al suo secondo mandato a Bruxelles. Ma Parigi e Berlino sono anche – da trenta mesi – le capitali di un’Europa spaesata sul fronte russo-ucraino, incapace di qualsiasi ruolo attivo nella Nato a trazione Usa.



Cento giorni dopo il voto per il rinnovo dell’europarlamento, sembrano presentarsi dunque al saldo i conti di un euro-voto che Macron aveva disperatamente tentato di rifiutare e ribaltare con lo scioglimento dell’Assemblea, deciso la sera stessa del 9 giugno. L’1 settembre – dopo due turni di elezioni legislative e una lunghissima “tregua olimpica” chiamata unilateralmente dallo stesso presidente – la Francia non ha ancora un governo: l’unica certezza è che Macron non sarà più il presidente forte che è stato dal 2017 e contava di restare fino al 2027, nonostante la crescente impopolarità.



Salvo colpi di scena, lo stallo verrà rotto con l’incarico a un esponente diverso da Gabriel Attal, finora in carica per il “campo macroniano”. Annunciando una convocazione per oggi, l’Eliseo ha di fatto confermato la candidatura forte di Bernard Cazeneuve, già premier durante l’ultima presidenza socialista, quella di François Hollande. Con un esponente socialista a Matignon, l’Eliseo dovrà “coabitare” nella guida il Paese, lasciando spazio a una coalizione di governo il cui perno si annuncia il Nouveau Front Populaire, vincitore delle legislative.

Spalle al muro, Macron proverà ora a cavalcare il più possibile la retorica del “fronte repubblicano” da lui invocato in extremis dopo il primo turno elettorale contro l’avanzata del Rassemblement National di Marine Le Pen. Ma l’affermazione della nuova sinistra – che è rimasta finora unita nelle sue anime (compresa quella antagonista di la France Insoumise) – ha impedito che la spregiudicata manovra del presidente, ai limiti della Costituzione, potesse tradursi nella conferma di Attal, con la sinistra in ruolo gregario. Quali che saranno ora i compromessi del tentativo Cazeneuve, la presidenza “jupiteriana” di Macron sembra al capolinea. Non è affatto da escludere che l’Eliseo debba rimangiarsi la riforma delle pensioni (approvata di fatto per decreto) proprio quando la Francia è la prima della lista fra i Paesi posti in procedura d’infrazione dalla Ue per deficit e debito fuori parametro. Analogamente, sembra tornare in forse anche l’aspirazione di Macron di orientare la transizione verde in Europa verso il “nucleare pulito” di marca francese.



Al di là del Reno, Scholz ha gestito la sconfitta all’euro-voto (per il suo Spd e per l’intera coalizione con verdi e liberali) con l’accortezza elementare di relegarne l’impatto a Strasburgo e facendo propria la riconferma a Bruxelles della popolare von der Leyen a Bruxelles. Gli effetti politici interni sono così rimasti congelati fino a ieri, quando però, l’Spd è stato apertamente condannato all’irrilevanza sia in Sassonia che in Turingia, in compagnia dei Verdi. Il voto locale nei due land dell’ex Germania Est ha invece confermato i polls che davano in testa l’estrema destra xenofoba di AfD: in Turingia largamente, in Sassonia testa a testa con la Cdu, resiliente nel suo ruolo di principale oppositore nazionale dei rossoverdi. Resta il fatto che in due land “antagonisti” AfD ha registrato il doppio dello “score” realizzato a livello nazionale alle europee di giugno (al secondo posto dietro la Cdu e davanti a Spd).

La vera novità di ieri – in parte annunciata – è stato comunque il balzo di Bsw: nuovissima insegna di sinistra sovranista lanciata un anno fa da Sahra Wagenknecht. La leader scissionista della Linke (il vecchio partito post-comunista tradizionalmente forte nell’ex Germania Est) ha ottenuto un risultato a doppia cifra in entrambi i land, attraendo la maggioranza del suo vecchio elettorato per assestarsi da subito davanti all’Spd. È probabile che abbia raccolto consensi al di là del malumore strutturale nelle classi medio/basse ex DDR: che abbia intercettato anche gli umori anti-immigrati molto peggiorati dopo gli accoltellamenti di strada; la preoccupazione di molti tedeschi per una situazione economica tutt’altro che incoraggiante; infine, la crescente insoddisfazione per la guerra alla Russia senza fine apparente.

Da Erfurt e Dresda, sono giunti segnali ormai quasi definitivi di sfiducia verso la maggioranza Scholz. Nei trenta mesi seguiti all’aggressione russa all’Ucraina l’inflazione e il rallentamento del ciclo hanno colpito duramente l’Azienda Germania: privata del gas russo (anche con il più che simbolico bombardamento del Nord Stream) e frenata dalla crisi geopolitica nella proiezione verso il mercato cinese. Scholz ha più di una giustificazione allorché viene accusato incessantemente di non essere stato all’altezza del suo ruolo, in Germania e in Europa. È diventato cancelliere quasi per caso tre anni fa, quando già Mosca stava muovendo l’esercito alla frontiera ucraina, su uno scacchiere ancora precluso a un capo di governo tedesco (molto più aperto invece a un presidente francese, che nell’occasione ha però egualmente fallito). Resta il fatto che Scholz è diventato il parafulmine di tutte le tensioni socioeconomiche tedesche, puntualmente riverberate nella maggioranza: dove tenere assieme il rigorismo dei liberaldemocratici, le strategie ambiziose dei verdi, il nervosismo dei sindacati e quello delle imprese sta diventando improbo. Per di più nel delicato passaggio fra “Ursula 1” e “Ursula 2” a Bruxelles e nello scenario incerto delle presidenziali Usa.

Il 10 giugno – poche ore dopo l’annuncio-choc di Macron – Scholz escluse in modo netto la possibilità di elezioni anticipate, rispondendo anche a una tradizione di costituzione materiale in Germania, amante della stabilità. Però il governo rossoverde di Berlino sembra promettere oggi un anno di lunga campagna elettorale, cioè il massimo dell’instabilità, soprattutto se alimentasse ulteriori consensi ad AfD. Per questo una fase di “trasferimento pilotato” dei poteri a Cdu-Csu (guidate oggi da Friedrich Merz) non è un’ipotesi da scartare a priori. La vera incognita è se la Spd – che già alla vigilia del voto 2021 sembrava orientata a un periodo di opposizione rigenerativa – accetterà di tornare in “grande coalizione” coi democristiani, in un “fronte” simile a quello che è riuscito a tenere ancora fuori la destra lepenista dalla stanza dei bottoni in Francia.

Come Macron, Scholz paga due anni di inflazione da guerra e di quasi-recessione imposta dal rialzo dei tassi d’interesse. Ma più che in Francia, l’Azienda-Germania è rimasta strangolata dalla crisi geopolitica dal brusco stop all’import di gas russo (simbolico il bombardamento di Nord Stream 2) e dal raffreddamento delle relazioni fra Occidente e Cina, imposto dagli Usa anche ai grandi esportatori tedeschi. Scholz – giunto quasi per caso alla cancelleria di Berlino, con una maggioranza inedita, quando già Mosca muoveva l’esercito ai confini ucraini – è stato presto travolto, anche dalla tenaglia fra il rigorismo dei liberali, le faraoniche strategie ambientali dei Verdi e la storica propensione dei socialdemocratici ad alimentare la spesa sociale, soprattutto in tempo di crisi.

Ce la farà Scholz a resistere almeno fino alle elezioni politiche in calendario fra un anno? Le tradizioni non scritte della politica tedesca rendono poco probabile uno sbocco traumatico, che tuttavia in Germania non viene più escluso. Potrebbe anzi accelerare il ritorno al potere di Cdu-Csu (fra l’altro il partito di von der Leyen) in nuove coalizioni da studiare dopo le urne.

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