Che la “domenica brandeburghese” potesse essere meno drammatica del previsto per il Cancelliere tedesco Olaf Scholz lo si era intuito già a metà giornata: l’affluenza – doppia rispetto al 2019 – prometteva un esito “resiliente” per l’Spd, che governa ininterrottamente il land ex orientale fin dalla riunificazione. A urne chiuse (con un affluenza del 74%, massimo storico, 13 punti percentuali in più rispetto a cinque anni fa ) l’esito è stato comunque “mixed”, nel gergo degli analisti.



I socialdemocratici – salvo colpi di scena sulle proiezioni – possono formalmente cantar vittoria, a differenza di quanto accaduto nei recenti voti “cugini” in Sassonia e Turingia. Il partito del Cancelliere è emerso primo e ha guadagnato sia voti (32%) sia seggi nel nuovo “parlamentino” di Potsdam. Però ha registrato un netto progresso anche il secondo arrivato: l’Afd (29%), la formazione della destra estrema che ancora alla prima proiezione i media tedeschi davano “testa a testa” con Spd. Fra i vincenti della domenica c’è sicuramente anche la Bws, il nuovo partito della sinistra sovranista, che – partendo da zero – ha confermato il suo radicamento “a due cifre” (12%) nell’ex Germania Est. Netto invece l’arretramento della Cdu e soprattutto dei verdi (dimezzati al 4,5%), mentre la Fdp – i liberali terzi partner della coalizione di governo a Berlino – sono finiti nei “voti dispersi”.



È uno scenario che – se confermato dallo spoglio reale – può in qualche modo ricordare i recenti sviluppi in Francia: avviati da una batosta elettorale comune a Emmanuel Macron e a Scholz alle europee. Ma – a differenza del Presidente francese – Scholz negli ultimi cento giorni si è preoccupato soltanto di assorbire il colpo. Il “chiarimento” che Macron ha spregiudicatamente cercato sciogliendo l’Assemblea nazionale – in Germania era del resto in calendario nei tre voti settembrini nei land orientali. Se ieri le urne avessero indicato pollice verso la Cancelliere – il terzo di fila – un aggiustamento brusco (elezioni anticipate o apertura immediata della coalizione alla Cdu) era nell’ordine del possibile. Ora pare invece assai probabile che la “smazzata” finale in Brandeburgo consenta alla coalizione rosso-verde di condurre in porto la legislatura quadriennale – com’è nelle corde della stabilità tedesca – fino al voto politico in calendario fra dodici mesi.



Come però in Francia – dove Macron ha fermato l’avanzata del Rassemblement National, ma non ha potuto evitare di farci i conti nella formazione del Governo Barnier – al termine della tripletta di voti locali l’Afd ha visto rafforzato il suo ruolo di proverbiale “elefante nella stanza” in Germania. Sahra Wagenknecht si è confermata dal canto suo come nuovo player politico: pressoché irrinunciabile nel riassetto politico in corso in Germania e forse titolare di un antagonismo più duttile e utilizzabile rispetto ad Afd. Per la Cdu – in una regione che circonda la città-land di Berlino – è stata invece una giornata negativa: 2,5 milioni di tedeschi hanno giudicato più utile puntellare una Spd screditata piuttosto che accelerare un cambio di equilibri politici utile al rientro della Cdu nella stanza dei bottoni. Perché?

Le ragioni individuabili sembrano due. La prima è lo choc provocato dal preannuncio di un pesante piano di tagli da parte della Volkswagen. Sarebbero 30mila i posti di lavoro in discussione presso il gigante tedesco dell’auto: per la prima volta anche in Germania, come dovrebbe essere ufficializzato nei prossimi giorni. Nessuna sorpresa che i sindacati tedeschi preferiscano affrontare la crisi (prevedibilmente più estesa rispetto alla sola Wolfsburg) con un Governo a guida Spd stabilmente in carica per un anno (anche se in partner di coalizione restano i Grunen fautori dell’auto elettrica e i liberali chiusi a ogni aiuto pubblico all’economia).

Scholz, dal canto suo, si è preoccupato di aiutare se stesso con un’iniziativa ancora al limite minimo della visibilità e soprattutto poco prevedibile negli sbocchi. Si tratterebbe – condizionale d’obbligo assoluto – di un tentativo diplomatico autonomo della Germania di forzare un cessate il fuoco in Ucraina, con l’apertura di un canale diretto fra Berlino e Mosca. Gli Usa sono già entrati in un periodo “bianco” – come minimo fino alle presidenziali del 5 novembre, forse fino al 20 gennaio se vincesse Donald Trump – mentre nelle capitali Ue si moltiplicano i segnali di insofferenza per lo stallo imposto dalla Nato sul fronte russo-ucraino, fonte di inflazione da tre anni e quindi di stagnazione. La contrarietà alla prosecuzione della guerra è un cavallo di battaglia di tutte le estreme tedesche, ma non va dimenticato che nel febbraio 2022 fu del neo-Cancelliere Scholz l’estremo tentativo di fermare la guerra sollecitando una dichiarazione di neutralità da parte di Kiev. Era però troppo tardi: Washington aveva già deciso che la risposta all’azzardo aggressivo di Vladimir Putin non poteva essere che la guerre combattuta dall’Ucraina e pagata dall’Europa, attraverso le campagne di sanzioni inflazionistiche.

La Germania è già una perdente certa della guerra russo-ucraina (più che simbolici la distruzione del gasdotto Nord Stream 2 e i muri risorti a intralciare i flussi commerciali fra Europa e Cina). Il “colpevole senza processo”, a oggi, è Scholz: certamente eletto per caso nel 2021 e quindi rivelatosi “unfit” nel caotico “crepuscolo di Angela Merkel”; ma anche indubbiamente sfortunato. Non c’è da stupirsi se – prima di passare alla storia come il peggior Cancelliere nella Germania nel dopoguerra – voglia giocarsi il tutto per tutto: sfruttando – come il Premier israeliano Bibi Netanyahu – l’autodafe’ del Presidente americano Joe Biden e la debolezza della Francia in una Ue comunque guidata da una tedesca.

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