Le elezioni in Germania hanno un’importanza fondamentale per l’Europa, per gli equilibri internazionali e, in modo tutto speciale, per l’Italia; ancor più per l’Italia guidata da Mario Draghi. Quando nel 2011 arrivò a Francoforte per presiedere la Bce, il quotidiano popolare Bild, il più venduto in Germania, regalò a Draghi un elmetto prussiano del 1871. Otto anni dopo lo richiese indietro in polemica con la svolta espansionista della Banca centrale europea. “Come dite voi, un dono è un dono”, rispose Supermario e si tenne il cimelio. Difficile che il nuovo cancelliere gli chiederà di metterselo in testa, perché il presidente del Consiglio italiano ha già posto chiaramente sul tavolo europeo la riforma del Patto di stabilità che per la Germania resta un tabù. 



È il nodo forse più intricato del rapporti tra Roma e Berlino, un nodo che Angela Merkel ha accantonato durante questi due anni di pandemia, ma che il suo successore dovrà sciogliere in un modo o nell’altro. Ci sono altre tre questioni chiave tra Italia e Germania che dovranno essere affrontate dal prossimo cancellierato: la riforma della governance europea superando il voto all’unanimità, i tempi e i modi della transizione energetica, la sicurezza comune cioè in sostanza il rapporto con gli Stati Uniti.



Sul Patto di stabilità, Spd, Cdu-Csu e liberali sono in sostanza d’accordo, le differenze riguardano la forma più che la sostanza. Olaf Scholz, il leader dei socialdemocratici oggi vice cancelliere e ministro delle Finanze, sostiene che il patto attuale è già abbastanza flessibile, quindi nel 2023 bisognerà tornare alla normalità sia nella politica di bilancio che in quella monetaria, anche se con alcuni aggiustamenti. Se guiderà il Governo, difficilmente cambierà idea. Se poi insieme a lui ci saranno la Cdu di Armin Laschet e la Fdp di Christian Lindner, il leader liberale che chiede di occupare le finanze, non c’è da attendersi concessioni. Quanto alla Csu, vola più in alto dei falconi bavaresi. Draghi, dunque, si troverebbe in una situazione simile a quella che ha gestito alla Bce, ma questa volta sarebbe impossibile isolare Berlino così come lui ha fatto con la Bundesbank. Non c’è più Angela Merkel a dargli corda più o meno apertamente. 



I Gruenen escludono qualsiasi ritorno all’austerità, ma nel caso in cui si formasse una coalizione insieme a loro (con i liberali e senza i democristiani o viceversa), i verdi concentrerebbero le loro forze sulla transizione digitale e non sul Patto di stabilità. Intendono accelerare l’utilizzo di energie rinnovabili, vogliono abbandonare al più presto il carbone e chiudere senza indugio le ultime centrali nucleari. I socialdemocratici sono più cauti, attenti alle preoccupazioni dei sindacati, e anche i democristiani si muovono con i piedi di piombo su pressione del Mittelstand (la media industria per lo più tradizionale) e dei Laender. Una partita complessa e potenzialmente lacerante. L’Italia ha tutto l’interesse a sostenere le posizioni prudenti visto il legame indissolubile tra la manifattura italiana quella tedesca (si pensi solo alla componentistica e all’auto elettrica). 

Draghi avrebbe un sostegno da Scholz sulla riforma della governance europea. Il leader della Spd ha detto chiaramente che vanno cambiati i meccanismi di voto e occorre ampliare i luoghi di discussione nei quali alla fine si arrivi a votare in maggioranza: “Basta con le decisioni all’unanimità dove un solo Paese può bloccare tutto”. Bisognerà vedere come andrebbero le cose nel momento in cui si opponesse uno dei piccoli Paesi che ha sempre fatto fronte comune con la Germania: non solo l’Olanda, Paese fondatore del processo europeo, ma l’Austria o la Finlandia. Comunque su questo terreno si può andare “avanti con giudizio”. 

Sia Scholz, sia Laschet, sia Lindner la pensano allo stesso modo (anche qui le differenze sono sfumature) sul rapporto con gli Stati Uniti. Non escludono di compiere passi avanti nella difesa comune europea, ma la Nato resta prioritaria e determinante. Nessuno di loro ha intenzione di schierarsi con la Francia nella disputa sui sottomarini nucleari all’Australia. Scholz ha auspicato un chiarimento e apprezza che Emmanuel Macron e Joe Biden ne discutano faccia a faccia, ma niente di più. Su questo concorda anche Draghi il quale, tuttavia, cerca di dare più spago a Macron il cui sostengo è essenziale per riformare il Trattato di Maastricht. Quanto ai verdi, il loro pacifismo è noto e non si è attenuato, le posizioni di Joschka Fischer (che è stato un eccellente ministro degli Esteri) restano isolate. Dunque Annalena Baerbock al governo metterebbero il piede sul freno e l’esercito europeo si allontanerebbe ancora di più. 

E se nascesse un Governo rosso-rosso-verde, cioè con dentro la Linke? Non sembra realistico, anche perché metterebbe in discussione un caposaldo della politica tedesca del dopoguerra: la stabilità. Tuttavia come ipotesi di scuola prendiamola in considerazione. In tal caso la politica estera sarebbe più lontana da quella americana, avrebbe spazio una certa apertura alla Russia, la politica economica sarebbe più espansionista, ma avrebbero gran voce in capitolo i sindacati i quali tendono verso posizioni protezionistiche: gli interessi dei lavoratori tedeschi prima di tutti gli altri, difesa del made in Germany, sostegno pubblico alle aziende in difficoltà e in particolare alle banche locali che già sfuggono al controllo della Bce. Se così fosse, alla instabilità politica s’aggiungerebbe l’instabilità economica. E sarebbero guai anche per l’Italia. Draghi fa gli scongiuri, come dargli torto?

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