“La leadership di Otto von Bismarck durò 16 anni e creò le basi della sicurezza sociale in Germania. Anche Helmuth Kohl ha governato a lungo, realizzando l’unificazione e dando vita all’euro. Ma che ci lascia frau Merkel dopo 16 anni di governo?”. È la premessa un po’ ingenerosa dell’articolo che The Economist dedica all’uscita di scena di “Mutti” che da lunedì lascia ad altri l’incombenza di dare un governo al Paese più importante d’Europa e così di dettare le mosse dell’Ue. Mai, si potrebbe dire, una staffetta così epocale è stata preparata in maniera così incolore e noiosa. 



È certo che a contendersi la leadership saranno i socialdemocratici di Olaf Scholz, che piace perché, lungi dal rappresentare una svolta, interna o internazionale, viene vissuto come l’uomo della stabilità, e Armin Laschet, designato senza grande entusiasmo dalla stessa Merkel. Ma entrambi saranno condannati a governare assieme stavolta con un terzo socio: vuoi la leader dei Verdi, Annalena Baerbock, oppure con la destra di Fdp. In quest’ultimo caso è facile prevedere una riedizione rafforzata della politica dell’austerità e la restaurazione del Fiscal Compact. Altrimenti ci sarà una svolta verso progetti ambientali da finanziare in buona parte con l’emissione di green bond. Nel primo caso ci sarà una parziale battuta d’arresto per il progetto europeo, altrimenti ci sarà più spazio per strumenti finanziari pensati per mercati che non vedono l’ora di sfornare cose da offrire a Bruxelles.



Di qui l’interesse italiano per l’esito della sfida. Mario Draghi, bersaglio per anni delle critiche più violente da parte dei sacerdoti dell’austerità teutonica, spera di poter contare su alleati più disponibili, pragmatici come Angela Merkel o, meglio, più sensibili a una conduzione comune dell’Unione, che renda possibile la crescita della Comunità sia sul fronte della tecnologia e dell’innovazione, oltre che della difesa. Una volta tanto, fra l’altro, l’Italia non si presenta all’appuntamento con il cappello in mano, ma con le credenziali in regola, purché sappia procedere sulla strada del Pnrr.



Una volta tanto, però, la sfida che attende la Germania (e l’Europa), non si giocherà all’interno degli steccati della Comunità. E non sarà problema di bilanci o di emissioni di Eurobond. I nuovi vertici della politica tedesca, al pari della Francia e dell’Italia, dovranno fare i conti con una situazione internazionale in movimento che non consente più ai vari Paesi di ragionare solo in termini di convenienza domestica. La partita geopolitica si sta facendo dura per davvero. L’aumento vertiginoso del gas liquido, che già sta producendo effetti devastanti sull’industria dei fertilizzanti (e di riflesso sugli alimentari) e non solo sulle bollette, è una conseguenza della stretta di Mosca sulle esportazioni che continuerà finché la Germania non darà il via libera all’attività del gasdotto Nord Stream 2 osteggiato dagli Usa. Così come non sarà facile per Berlino e Parigi far passare il trattato già sottoscritto con Pechino. La fine della globalizzazione prima maniera ha segnato la conclusione di una lunga stagione propizia per la Germania, che ha potuto senza colpo ferire fare di Pechino il suo miglior cliente senza incorrere nelle ire di Washington. 

Dopo l’età del pragmatismo e delle scelte rinviate, insomma, è suonata l’ora delle scelte. E speriamo che la nuova leadership tedesca, assieme a Draghi, si riveli all’altezza. Ci serve una Germania forte e autorevole per sfruttare appieno la ripresa italiana.

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