L’unico piano coerente per salvare il Paese che serviva ad Alexis Tsipras era il Memorandum. Senza di esso, lui e il suo partito stanno vivendo una grande confusione. Tranne forse l’appello al domani «dei tanti». E lo si è visto in questa campagna elettorale. Quella del primo ministro impostata sulla paura di un ritorno all’austerità, di un ritorno alle élite, di un prossimo governo ordo-liberale. Quella del suo avversario, invece, tutta dedicata al giorno dopo, tutto infiorettato di promesse di tagli e di ripresa dell’economia.
Senza il «suo» memorandum, il terzo dal valore di ulteriori 86 mld, Tsipras non ha proposto una idea di Paese governato da sinistra. D’altra parte, se si escludono i primi sei mesi di duro scontro con i creditori – con il finale di tragedia del referendum – i quattro anni di Syriza sono stati i più confusi degli ultimi dieci, cioè da quando è scoppiata la crisi del debito ellenico. Tsipras ha fatto «qualcosa di sinistra»? Certamente quasi nulla di quanto nel 2014 aveva promesso. Lotta all’evasione? Quasi nulla. Riforma della giustizia? Magari, ha invece soverchiato spesso la magistratura. Investimenti esteri? Siamo a zero, anzi i pochi volenterosi sono stati costretti all’abbandono. Snellimento della burocrazia? Anche questo a zero. Per costruire una centrale elettrica, un potente industriale ha dovuto collezionare ben 237 firme prima di iniziare la costruzione – tradotto in tempo: 7 anni.
Il suo governo è comunque servito allo scopo: ha tolto i manifestanti, quasi mai pacifici, dalle strade. Ha abbassato il capo di fronte alle richieste europee e ha fatto buon viso a cattivo gioco. Ovviamente la retorica governativa è sempre stata «barricadera». Ha però aumentato la pressione fiscale. E oggi il Paese è allo stremo. Tsipras se ne rende conto e la cartina di tornasole è la sua campagna elettorale: aggressiva e polarizzante. È ritornato a recitare il ruolo che meglio conosce: quello del radicale di sinistra. In questo comunque, in questi quattro anni di governo, non è stato certamente aiutato dal suo gruppo di lavoro. Pochi i ministri preparati, pochi quelli che sapevano condurre una discussione senza tracimare nell’ideologia o nell’attacco personale. D’altra parte nessuno di loro ha mai gestito un seppur ente pubblico. Tante lauree, libri, ma poca dimestichezza con la gestione della cosa pubblica.
La rabbia verso la crisi si è spenta nell’urna del referendum di quattro anni fa. Chi pensava, Tsipras che cosa pensava?, di poter opporsi ai grossi calibri teutonici ha avuto la sua risposta. E oggi alla rabbia si è sostituita una nuova speranza. Quella che il decennio della crisi è ormai alle spalle (non è vero, ma si fa finta che sia così), e quindi è ora di ricominciare a ricostruire. Ma con facce «nuove», che nuove non sono. Sono facce dell’usato – sul «sicuro» ci sono al momento dei dubbi – di Nea Democratia, con alla testa il cinquantenne Kyriakos Mitsotakis, un liberale moderato e pacato negli atteggiamenti. L’unico suo svantaggio è quello di appartenere a una «famiglia politica» che dagli anni ’60 ha le mani in pasta del potere. Vincerà sicuramente. Quasi certamente otterrà la maggioranza assoluta dei seggi (più di 150). Ma i dubbi restano. Quali? In dieci anni di profonda crisi, la società civile non è stata in grado di proporre volti e narrazioni nuovi. Si ritorna a chiedere miracoli a una classe politica e partitica che ha portato il Paese al fallimento prima (2009) e poi all’incapacità di trovare un accordo (2010) con l’allora partito socialista per definire di comune accordo una strada per fare uscire Atene dalla crisi, come hanno agito altri Paesi in crisi.
Quale il risultato? Alexis Tsipras che aveva promesso che avrebbe votato la legge che con un solo articolo avrebbe «stracciato il Memorandum». Si è visto come è andata a finire. La Grecia ha «chiuso» con i Memorandum, ma la voragine del debito pubblico, aumentato di 10 miliardi durante il governo Tsipras, resta.