Risultato scontato per le elezioni del Consiglio legislativo di Hong Kong, vista la legge elettorale voluta da Pechino: dei 90 seggi che compongono il Consiglio, solo 20 vengono eletti a suffragio universale e ad aggiudicarseli sono tutti candidati pro-Pechino. Gli altri 70 sono nominati da enti la cui composizione è determinata dal Partito comunista cinese. Per chi si candida è comunque obbligatorio comprovare di essere “patrioti”, cioè persone fedeli al Partito comunista cinese. C’è però un dato interessante in questa elezione-farsa, come ci ha fatto notare in questa intervista il professor Massimo Introvigne, sociologo, fondatore del Cesnur e del sito Bitter Winter, chefa documenta la repressione civile e religiosa in Cina: “La bassissima affluenza al voto. Si è recato alle urne solo il 30,2% degli aventi diritto, il che significa che la stragrande maggioranza dei cittadini di Hong Kong boicotta il voto ed è quindi contraria a Pechino”. È stato eletto anche un candidato considerato non del tutto allineato a Pechino, che ha preso i voti di un’assemblea di imprenditori e di rappresentanti degli interessi economici della città: “Questo vuol dire che dopo la recente stretta sugli imprenditori in Cina da parte del Pcc, esiste a Hong Kong una forte preoccupazione sul mantenimento delle libertà economiche, che invece Pechino ha sempre assicurato essere intoccabili”.
Risultato elettorale ampiamente previsto quello per il Consiglio legislativo di Hong Kong. Come legge questo esito?
Direi che la cosa più interessante da segnalare è la scarsa percentuale di votanti. Penso abbiano votato due categorie. La prima, costituita da sostenitori del regime, che indubbiamente esistono: quando si potevano fare i sondaggi coloro che erano favorevoli a una maggiore integrazione con Pechino oscillavano tra il 10 e il 15%. Queste persone sono contente di quello che sta succedendo per diversissime ragioni. Gli altri che hanno votato è perché a Hong Kong ogni giorno si fa un passo avanti nelle misure di sorveglianza delle persone.
Intende gente che ha votato per paura di essere schedata?
Esattamente. Attualmente a Hong Kong la sorveglianza è estrema: attraverso i riconoscimenti facciali con telecamere, si viene controllati anche quando si va al distributore per fare benzina. C’è, quindi, un altro 15% che ha votato perché aveva paura che, non andando ai seggi, sarebbe stato poi segnalato alle autorità.
C’è un solo candidato indipendente eletto con i voti di una assemblea di imprenditori e rappresentanti degli interessi economici. Significa che chi si occupa di economia ha paura di Pechino?
Certamente. Anche l’economia a Hong Kong è passata attraverso un processo complesso. Inizialmente la grande imprenditoria, eccetto quella allineata con il movimento per la democrazia, ha cercato di mettersi d’accordo con Pechino anche con iniziative molto criticate in Occidente, come quelle aziende a capitale britannico che hanno applaudito alla legge sulla sicurezza nazionale. Tuttavia questi interessi oggi sono messi in crisi da quanto sta succedendo in Cina, dove ogni settimana un imprenditore viene arrestato o sparisce nel nulla.
Non è più la Cina del comunismo capitalista?
Questo avviene da quando Xi Jinping ha lanciato il movimento della “prosperità comune”, che comunque non rinnega il famoso motto “Cinesi arricchitevi” di Deng Xiao Ping. Anzi, come fa molto spesso, Xi Jinping con la terza risoluzione sulla storia del Partito comunista, dopo le precedenti di Mao e di Deng, si preoccupa di giustificare come la presenza dei ricchi sia perfettamente compatibile con il comunismo, ironizzando sugli occidentali che dicono che, se in Cina ci sono tanti milionari, è perché non hanno letto bene Marx, non capendo la differenza tra socialismo e comunismo.
Quindi cosa sta succedendo?
Xi Jinping sta dicendo che la cosa è andata un po’ oltre e ci sono degli eccessi, perché alcuni imprenditori pensano di essere indipendenti dal partito e prendono iniziative fuori dei piani del partito stesso. Questa influenza molesta del partito sulle imprese alla fine spaventa anche gli imprenditori di Hong Kong.
All’indomani del voto Pechino ha reso noto un documento sulla cosiddetta “democrazia con caratteristiche di Hong Kong”. Di cosa si tratta?
È derivato da un altro documento sulla democrazia con caratteristiche cinesi pubblicato due settimane fa: è un altro grande tema caro a Xi Jinping. Non esiste, secondo lui, una sola democrazia, come non esiste una sola nozione di diritti umani, bensì c’è una democrazia occidentale e ce ne è una cinese, così come ce ne potrebbe esserne una araba. Alcune caratteristiche, per esempio la presenza di partiti di uguale peso in competizione, l’autonomia del potere giudiziario, i diritti umani, non sono caratteristiche della democrazia cinese, ma di quella occidentale, non solo una delle tante, ma considerata da Xi anche la peggiore, perché ha perso la battaglia contro il Covid, mentre la Cina, secondo lui, l’ha vinta. Anche la Corea del Nord ha una sua democrazia, che non è quella cinese. Ma così dicendo la parola democrazia non ha più alcun significato.
Dopo la definitiva annessione di Hong Kong, la prossima tappa sarà Taiwan?
Qui il problema è molto delicato. Negli ultimi tempi gli specialisti americani della Cina giudicano molto significative le dimissioni, anche se in realtà è stato un siluramento, del direttore del Global Times, il quotidiano in inglese del Partito comunista cinese. Era un super falco della guerra a Taiwan, però ha dato fastidio per una serie di articoli che davano per scontato l’attacco militare. A irritare il partito è stato il fatto che, se poi l’attacco non ci fosse stato, sarebbe sembrato che Xi Jinping avesse fatto marcia indietro. Tutte le opzioni su Taiwan restano sul tavolo ed è giusta l’analisi degli specialisti americani: in questo momento i cinesi stanno guardando a cosa succede in Ucraina. Osservano se e come l’Occidente potrebbe reagire a un attacco russo, il che sarebbe preso come modello per ipotizzare cosa succederebbe in caso di attacco cinese a Taiwan.
Che idea si è fatto del recente vertice tra Putin e Xi Jinping?
L’alleanza tra i due paesi è molto stretta dal punto di vista dell’intelligence, della propaganda e anche militare, però ci sono analisti americani che fanno notare come ci siano interessi geopolitici, per esempio a proposito dell’influenza sulla Mongolia, che dividono i due paesi fin dai tempi degli zar. I consiglieri di Biden suggeriscono di trattare più amichevolmente Putin, in modo da vedere se si potrà riuscire a frapporre dei cunei in grado di ostacolare questo processo di integrazione.
(Paolo Vites)
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