La guerra russo-ucraina oscura, anche se a fatica, una campagna elettorale già iniziata: che secondo alcuni osservatori potrebbe registrare una drastica accelerazione alla scadenza autunnale in caso di disimpegno del premier Draghi se chiamato ad alti incarichi internazionali. E sarà eventualmente interessante vedere se i due importanti voti regionali in programma in Lombardia e Lazio nella primavera 2023 rimarranno disgiunti rispetto a consultazioni politiche anticipate. Un punto interrogativo in più – un rischio/opportunità supplementare per le forze politiche – in uno scenario sconvolto dalla crisi internazionale. Che tuttavia non paralizza l’avvio del gioco della candidature: il sale della competizione democratica.



In Lombardia non ha sorpreso veder rilanciare da centrosinistra il nome del sindaco di Milano, Beppe Sala. È stato appena rieletto a Palazzo Marino, ma senza eccessivo entusiasmo da parte sua e anche da parte degli elettori: che al ballottaggio (fra Sala e il pochissimo consistente candidato di centrodestra Luca Bernardo) hanno fatto crollare l’affluenza sotto il 50 per cento. Ma il “sindaco dell’Expo” ha affrontato il voto con il motore quasi in folle.



Da un lato aveva tentato un colpo di reni post–pandemia (dopo l’infelice gestione della primavera 2020) inventandosi un nuovo partito verde: di ispirazione europea, agganciato alla transizione eco–digitale, in concorrenza con lo stagionato ambientalismo antagonista. Ma il progetto è rimasto in fase incubatoria: senza addentellati negli equilibri fra il Pd nazionale di Enrico Letta ed M5s; e senza risposte forti e specifiche da parte dal mondo finanziario e industriale lombardo. Che anche in questi giorni – quando l’escalation energetica sta colpendo duro l’imprenditoria – appare preoccupato di ottenere dal governo aiuti d’emergenza molto tradizionali.



È vero che il nome di Sala sembra l’unico in grado di garantire al centrosinistra almeno una reale competizione con il centrodestra, che governa ininterrottamente la più grande regione italiana dal 1994, sempre dopo aver sbancato le urne. Per di più il sindaco di Milano era più che virtualmente uscente al termine del primo mandato: l’ipotesi che si trasferisse a Roma come ministro era circolata già in occasione del “ribaltone” del 2019, nonché per il governo Draghi, formatosi un anno fa.

La candidatura al Pirellone – per quanto incerta nell’esito – potrebbe configurare una exit strategy per un sindaco di una città che non sembra oggi “un gioco in mano” (anzi: Palazzo Marino si è associato al coro degli amministratori locali preoccupati per le crescenti ristrettezze dei bilanci). Ma evidentemente anche il centrosinistra (soprattutto il centro dell’opposizione) sta ragionando su opzioni alternative, se nel primo giro di gossip è spuntato il nome di Carlo Cottarelli.

L’economista cremonese, dopo aver trascorso una vita al Fondo monetario internazionale, insegna oggi alla Cattolica, dove guida un già affermato Osservatorio sui conti pubblici italiani. È un commentatore molto visibile sui grandi media, ma è stato anche “premier incaricato per un giorno”: quando  nella primavera 2018 i negoziati fra Lega e M5s sembravano a un punto morto. Si disse allora che il Quirinale avesse raccolto un discreto suggerimento da parte di Mario Draghi, ancora al vertice Bce. Cinque anni dopo l’ipotesi Cottarelli governatore della Lombardia sembra – come allora – un robusto ballon d’essai.

A differenza dell’esperienza di Mario Monti – che da premier istituzionale fondò un partito che tuttavia non si affermò al voto e svanì come contenitore socioculturale –, Draghi non metterà a disposizione se stesso e il suo brand per alcuna competizione elettorale. È invece il “draghismo” che pare avere qualche radice in più del “montismo”: anzitutto  nell’ipotesi che l’attuale “larga coalizione” debba continuare, con Draghi ancora a Palazzo Chigi o “promosso” altrove. Le eterne manovre al centro dello scacchiere politico continuano a vedere protagonisti il leader Iv Matteo Renzi piuttosto che Carlo Calenda con la sua Azione. Fra scenario nazionale e “laboratorio lombardo” il nome “macroniano” di Cottarelli – nell’aprile 2022 – appare tutt’altro che privo di senso: a maggior ragione quando il Macron originale verrà molto probabilmente riconfermato domenica presidente francese, ma prevedibilmente con il vincolo di spostare a sinistra l’asse del suo esecutivo.

Certamente, l’identikit  dello sfidante di opposizione sarà definito quando prenderà forma il volto del candidato per la maggioranza “incumbent”. Attilio Fontana, anzitutto, desidera tentare il bis? In caso contrario i nomi in grado di subentrargli – come candidati e probabilmente anche nell’incarico – circolano già e sono tutt’altro che “ballon d’essai”: la vicegovernatrice Letizia Moratti, subentrata in corsa nella delega critica alla Sanità, ha gestito con buona performance la campagna vaccinale. Dispone di un curriculum forte sia sul versante istituzionale che nella società civile milanese, bipartisan. Non le si è mai potuto cucire addosso il semplice distintivo di Forza Italia. La Lega, dal canto suo, ha già semiaperto il cassetto con dentro il profilo di Giancarlo Giorgetti: ministro in carica per lo Sviluppo economico, sottosegretario alla presidenza nel Conte 1, leader nel partito guidato da Matteo Salvini. Come Moratti (come Sala, come Cottarelli) un player nazionale: perché se voto politico e voto lombardo saranno accoppiati in un solo election day, non sarà facile capire quanto più l’uno condizionerà l’altro.

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