La più bassa percentuale di votanti nella breve storia dell’Iraq libero dal regime di Saddam: è il dato che emerge dalle elezioni anticipate che si sono tenute lo scorso weekend. Ha votato infatti solo il 41% degli aventi diritto. Dovevano essere le elezioni della svolta, dopo le sanguinose manifestazioni del 2019, nelle quali il popolo chiedeva un cambiamento profondo del sistema politico, accusato di corruzione, incapacità, interessi di parte. Ma, nonostante una riforma del processo elettorale volta a favorire candidati indipendenti, i protagonisti delle proteste non sono andati a votare o sono tornati a votare i vecchi partiti tradizionali. A risultare vincente è il Movimento Sadrista, guidato dall’ambigua figura religiosa sciita di Moqtada al-Sadr, in passato a capo di milizie che hanno combattuto ferocemente gli americani, poi alleato dell’Iran contro lo Stato islamico, adesso vicino all’Arabia Saudita.
“È un quadro drammatico quello mediorientale” ci ha detto in questa intervista il professor Rony Hamaui, docente dell’Università Cattolica di Milano, esperto di geopolitica e di finanza islamica, “dal Libano all’Afghanistan, dall’Iraq fino all’Iran, dove i modelli occidentali hanno perso ogni credibilità e valore e dove gli interessi tribali, criminali e radicalizzati stanno lacerando i contesti nazionali”. L’astensionismo, ci ha detto ancora, ha caratterizzato anche le recenti elezioni iraniane: “Per quanto il voto sia il modello migliore a disposizione, si vive una crisi profonda di valori a cui sembra che nessuno sappia dare una risposta e che si riflette anche nei paesi in via di sviluppo”.
Dovevano essere le elezioni della svolta dopo le gravi proteste del 2019, invece ha votato solo il 41% della popolazione. Come mai?
Come dicono i politologi e anche gli economisti, non andando a votare si vota con i piedi, si esprime cioè la protesta in questo modo. È successo anche in Iran e in tante altre parti, Occidente compreso. Quando la gente non vede alternative vere, non va a votare.
Significa che la classe politica non ha saputo dare speranza al popolo iracheno, affamato dalla crisi economica e dalle bande criminali e terroristiche?
Tutto lo scacchiere mediorientale, non solo l’Iraq, versa in una crisi profondissima. Dal Libano all’Afghanistan, dall’Iraq al Pakistan ma anche all’Iran stesso, si trovano tutti in un momento davvero difficile, di grande instabilità, di fallimenti a livello governativo. L’esempio più clamoroso è quello del Libano, dove si rischia di far morire la gente di fame, e anche di altro.
Questa situazione è figlia del disimpegno americano e occidentale?
È dovuta a molti fattori. Certamente il modello occidentale oggi non è più un modello che attrae, i modelli alternativi potrebbero essere quello cinese, che oggettivamente è però irripetibile, o quello russo, che comunque non chiamerei neanche un modello. Alla fine questi paesi, che hanno già una struttura sociale e politica molto debole, oltre a soffrire del ritiro fisico dell’Occidente, soffrono anche della mancanza di una presenza ideologica dell’Occidente e questo non facilita per niente i processi di pacificazione e di sviluppo. Le democrazie occidentali non sono più viste come un modello. Questa è la cosa più preoccupante.
Anche il mondo occidentale stesso è attraversato da una crisi della politica, che forse si riversa sui paesi in via di sviluppo, basti pensare ai livelli di astensionismo delle ultime elezioni italiane, ma non solo. Cosa ne pensa?
Sì, è vero, l’astensionismo ha ormai raggiunto livelli altissimi anche in Occidente, i valori democratici di partecipazione sono in crisi ovunque, anche se sono i migliori in assoluto. In questi paesi ovviamente la situazione è ancor più complicata, perché si fronteggiano diverse ideologie.
Il vincitore delle elezioni irachene è un personaggio assai ambiguo, Moqtada al-Sadr, già capo di milizie anti-americane, poi amico dell’Iran e adesso dell’Arabia Saudita. Cosa dobbiamo aspettarci?
Ormai siamo saturi di situazioni di questo tipo, l’Afghanistan ne è l’esempio. Talebani, Isis, è tutta una guerra fratricida nei vari paesi, che all’Occidente, tutto sommato, non dispiace più di tanto: si ammazzano fra loro e noi stiamo a guardare.
Un paese come l’Iraq però è strategicamente assai importante per lasciarlo a se stesso, non crede?
Certo, l’Iraq è importantissimo, però c’è ben poco da dire, i pochi che vanno a votare lo fanno perché difendono le loro milizie. Non esiste un confronto di idee né politico. Anche la Tunisia stessa ci spaventa al di là delle apparenze. C’è un arretramento globale del Medio Oriente. Inoltre pensavamo di esserci liberati dal petrolio, invece ne dipendiamo ancora fortissimamente.
Intanto gli 007 iracheni hanno arrestato il cassiere dell’Isis. Che significato dare a questa operazione?
Ha un significato molto importante: il tesoriere di una organizzazione terroristica come l’Isis è figura chiave, però rientra in queste lotte fratricide di bande. Uno dice: meglio i talebani dell’Isis, però essere arrivati a questo livello vuol dire essere messi malissimo, non capiamo neanche più con chi stare.
L’Iran da un po’ appare alquanto silenzioso, cosa bolle in pentola a Teheran?
Hanno grandi difficoltà interne, fanno fatica, stanno cercando di capire se Biden viene dietro alle loro richieste sugli accordi nucleari. Ma è lo stesso modello di quanto è successo in Afghanistan, dove i talebani hanno detto “non faremo più attentati” e gli americani hanno risposto “va bene, allora ce ne andiamo”. Un po’ come in Iran, dove dicono: noi ce ne stiamo buoni, voi firmate però gli accordi. Ma una volta firmato l’accordo facciamo quello che ci pare. In Afghanistan è andata così, se chiedi a Washington che alternativa c’era, non sanno che risponderti. Chi paga il prezzo più alto sono le popolazioni locali.
(Paolo Vites)
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