Il ballottaggio nelle elezioni presidenziali polacche si è concluso con la vittoria di stretta misura del presidente uscente, il nazional-conservatore Andrzej Duda, sullo sfidante, il liberal-conservatore Rafael Trzaskowski, sindaco di Varsavia. Lo scarto è stato minimo, 51,2% contro 48,8%, ma l’affluenza piuttosto alta, circa il 68% degli aventi diritto al voto, nonostante la situazione di emergenza provocata dal coronavirus. La prima tornata elettorale aveva visto undici candidati, con Duda che aveva raccolto circa il 44% e Trzaskowski il 30%. Il forte incremento di voti per quest’ultimo segnala il raggruppamento attorno al sindaco di Varsavia di tutti gli avversari di Duda e del partito Diritto e Giustizia (Pis) di cui era il candidato.



Un giudizio comune a tutti i commentatori è che, al di là dei due candidati e dei partiti che li sostenevano, i risultati hanno dimostrato una divisione non trascurabile tra due concetti di Polonia. E i commenti si sono concentrati sui fattori che hanno determinato questa divisione, a partire da quello territoriale: Duda ha vinto soprattutto nell’Est del Paese, nei piccoli centri, nelle aree rurali e tra i meno giovani; il suo avversario, nell’Ovest, nelle grandi città, tra i più giovani. Una divisione riscontrabile probabilmente anche in altri Paesi, ma che in questo caso è stata letta come il confronto tra una Polonia tradizionale e una moderna, tra una nazionalista e l’altra europeista.



Ora, non vi è dubbio che Duda e il Pis abbiano tratti evidentemente nazionalisti, ma la storia della Polonia con la lunga e dura lotta per la propria indipendenza ha reso i polacchi molto coscienti e orgogliosi della loro appartenenza nazionale. Come accade, e senza reprimende, per francesi e tedeschi, o inglesi, criticati però per il loro nazionalismo che li ha portati alla Brexit, mentre viene ben accettato il nazionalismo filo-Ue degli scozzesi.

Non vi è neppure dubbio che il modo di governare di Duda abbia tratti di autoritarismo e che certi atteggiamenti, per esempio sull’immigrazione, siano un po’ spinti (qualche maligno potrebbe pensare che abbia preso esempio da Calais o dalla frontiera italo-francese). O sui duri rapporti con il potere giudiziario, che tende a mettere in riga (qui forse il suggerimento gli è venuto dall’esame dell’opposta situazione italiana), provocando sdegnate reazioni a Bruxelles. Ed ecco qui il vero problema: l’atteggiamento “sovranista” verso l’Unione Europea. La Polonia ha finora avuto i migliori risultati economici dell’Unione e questo anche grazie, o forse soprattutto, alla partecipazione all’Ue. Non credo che Duda e il Pis vogliano uscirne e che, sotto questo profilo, siano europeisti quanto Trzaskowski, ma senza fare dell’Ue una sorta di idolo, rinunciando alla propria identità nazionale in favore di quella cosiddetta europea. Non più di quanto siano disposti francesi e tedeschi.



Il punto è che, al di fuori dei due casi appena citati, non è possibile parlare di identità nazionale senza essere tacciati di nazionalismo, o di essere reazionari o addirittura fascisti. Interessante leggere i commenti su queste elezioni di leader mediatici occidentali come The Guardian o il New York Times. Accanto ai temi già visti, emerge subito un problema centrale: l’avversione di Duda e dei suoi sostenitori all’aborto e all’Lgbt. Così il Guardian parla di una divisiva campagna condotta da Duda in cui “prometteva di sostenere “i valori della famiglia” a spese dei diritti Lgbt e usando spesso una retorica omofobica”.

La stessa critica troviamo in un articolo del NYT, secondo il quale la promessa di difendere “le famiglie tradizionali” ha avuto successo tra gli elettori più anziani e tra i praticanti cattolici. Aggiungendo che l’attacco ai “diritti Lgbt” è stato un “potente argomento in un Paese devotamente cattolico, in particolare al di fuori delle sue città cosmopolite”.

Abbiamo già citato alcuni aspetti della politica di Duda e del Pis che vale la pena di tenere sotto osservazione, cui si può aggiungere anche una non sufficiente attenzione al problema dell’antisemitismo, latente in Polonia come in altri Paesi dell’Unione. Tuttavia, gli articoli citati ed altri commenti paiono raffigurare un vero e proprio conflitto culturale o, per rifarsi a vecchie citazioni, uno scontro di civiltà o addirittura una nuova ottocentesca Kulturkampf, non più per la supremazia dello Stato, ma del nuovo credo universale per cui la religione non può più essere considerata un valore per una nazione, tantomeno per uno Stato. A meno che si tratti dell’islam.