Ieri, nella notte italiana, è iniziato ufficialmente il lungo percorso delle primarie americane, le elezioni che servono a scegliere il candidato dei due maggiori partiti (democratico e repubblicano) alla Casa Bianca. Come da tradizione si svolgono tra l’inverno e la primavera dell’anno delle elezioni presidenziali, che sono fissate per il 5 novembre 2024, ed il primo Stato ad aver votato è l’Iowa. Si tratta di un piccolo stato del Midwest, che ha poco più di 3 milioni di abitanti, prevalentemente di etnia bianca e di fede protestante, con un’economia prevalentemente agricola ed un peso modesto nelle elezioni presidenziali. Anche alle primarie il peso dell’Iowa è di per sé modesto, vengono assegnati solo l’1,6% dei grandi elettori che sceglieranno, alle conventions dei due grandi partiti, il candidato presidente, ma il fatto di essere le prime può innescare processi, o confermare dati, di primaria importanza. Tra gli ultimi 10 candidati presidente per il partito repubblicano 7 avevano vinto le primarie in Iowa.



Particolarmente curiosa la modalità di svolgimento di queste votazioni, dette caucus: possono partecipare solamente gli elettori registrati come sostenitori del partito e, almeno per i repubblicani, l’unico modo di votare è presentarsi nel luogo e all’ora in cui è fissata la riunione del proprio distretto (sono state designate 1.657 sedi), ascoltare il breve discorso di ognuno dei rappresentanti dei diversi candidati ed effettuare le votazioni. Questo lunedì oltretutto l’affluenza è stata difficoltosa a causa delle tempeste di neve che hanno reso difficili gli spostamenti.



I sondaggi sono piuttosto inequivocabili: l’ex presidente Trump, ad oggi favorito per la vittoria, è dato a 48 punti, con un distacco significativo sulla seconda candidata, Nikki Haley, a 20 punti; in terza posizione il governatore della Florida, Ron DeSantis, a 16 punti. I primi dati che arrivano dai seggi (solo nella tarda giornata di oggi avremo risultati affidabili) sembrano confermare i punteggi sopra descritti, che non si allontanano di molto dai sondaggi nazionali relativi alle primarie, che danno sempre Trump in forte vantaggio.

De Santis, che era considerato una stella nascente della politica conservatrice, ha fatto una campagna elettorale con diversi errori ed è sembrato nei dibattiti televisivi ingessato e poco incisivo; Haley è in costante crescita nei sondaggi, e ha raccolto l’appoggio di alcuni importanti donatori, piace alle donne, agli elettori moderati e ai laureati; Trump rimane tra i repubblicani l’asso pigliatutto, con una grande presa sull’elettorato bianco e non laureato, sui cristiani evangelici, sui gruppi conservatori, ma anche tra gli italo-americani.



Trump non ha partecipato ad alcun dibattito televisivo, preferendo rilasciare lunghe interviste e arringare le folle con grandi comizi, lasciando perfino l’amato Twitter (ora X) e preferendo il social di sua creazione Truth. Le primarie proseguono il 23 gennaio in New Hampshire e l’8 febbraio in Nevada e termineranno il 4 giugno, ma il giorno probabilmente decisivo sarà il “super Tuesday”, ovvero martedì 5 marzo, data in cui verranno fatte contemporaneamente le primarie in 16 Stati. La strategia dei due principali sfidanti di Trump (Nikky Haley e Ron DeSantis) è quella di puntare al secondo posto, rafforzando la propria immagine all’interno del partito e nei confronti dell’elettorato, in attesa dei chiarimenti sulla situazione giudiziaria di Trump o comunque aspettando un suo passo falso in questa lunga e turbolenta campagna. A differenza dell’ex presidente i due sfidanti sono entrambi giovani e sicuramente potranno influire pesantemente sulla politica USA del prossimo decennio.

Il candidato del partito democratico sarà l’ex presidente Joe Biden, formalmente infatti le primarie si tengono lo stesso, ma non ci sono sfidanti significativi; non si può però dire che Biden non debba guardarsi anche da quanto succede a sinistra: le presidenziali USA hanno storicamente avuto, oltre ai candidati dei due grandi partiti che si giocano la presidenza, dei “terzi incomodi” che in alcuni casi si sono rivelati importanti collettori di voti (Ross Perot prese il 20% nel ’92 causando così la sconfitta di Bush senior in gara per il secondo mandato).

Hanno infatti già annunciato la propria discesa in campo tre nomi noti, che possono distrarre voti dal partito democratico: il primo è Cornel West, filosofo e teologo afroamericano, attivista diritti civili, già docente di grandi università, tra cui Harvard e Yale, che piace molto negli ambienti intellettuali progressisti americani, la seconda è Jill Stein, probabile candidata del partito dei verdi, attivista ambientalista, già candidata nel 2016, quando prese poco più dell’1%. Il terzo outsider è Robert F. Kennedy Jr., nipote dell’ex presidente assassinato, John Fitzgerald Kennedy: ultimo rampollo della potente e ricchissima famiglia Kennedy, è per ragioni dinastiche considerato un democratico, ma si è distinto negli ultimi anni per le posizioni no-vax e negazioniste in materia di Covid-19, oltre che per le campagne ambientaliste e pacifiste. Nessuno di questi candidati ha la possibilità di ottenere risultati importanti alle prossime elezioni, ma potrebbero costringere Biden a difendersi anche da sinistra, o comunque rosicchiare voti specialmente tra quelle categorie (studenti universitari, ambientalisti, pacifisti, attivisti LGBT) che ritengono il presidente Biden eccessivamente moderato.

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