Berlusconi si ritira e silura Draghi, si legge da ieri sera su molti siti Internet di informazione e da stamattina su altrettanti giornali. Non è del tutto così. La rinuncia alla candidatura per il Quirinale è certa, benché il leader di Forza Italia, “dopo innumerevoli incontri con parlamentari e delegati regionali, anche e soprattutto appartenenti a schieramenti diversi della coalizione di centro-destra”, abbia “verificato l’esistenza di numeri sufficienti per l’elezione”: così è scritto nella lettera letta ieri pomeriggio da Licia Ronzulli al vertice a distanza con gli altri partiti di centrodestra. Ma nonostante i numeri, Silvio fa un passo di lato perché “l’Italia ha bisogno di unità” e non di “polemiche e lacerazioni” sul suo nome “che oggi la nazione non può permettersi”.



È il ruolo di Mario Draghi che merita un approfondimento. Berlusconi rivendica di essere stato “il primo a volere un governo di Unità nazionale che raccogliesse le migliori energie del Paese, e che – con il concorso costruttivo anche dell’opposizione – è servito ad avviare un percorso virtuoso che oggi più che mai deve andare avanti. Per questo considero necessario che il governo Draghi completi la sua opera fino alla fine della legislatura, proseguendo il processo riformatore indispensabile che riguarda il fisco, la giustizia, la burocrazia”. A questo punto, con gli altri leader della coalizione, “da oggi lavoreremo per concordare un nome in grado di raccogliere un consenso vasto in Parlamento, capace di rappresentare con la necessaria autorevolezza la nazione nel mondo e di essere garante delle scelte fondamentali del Paese nello scenario internazionale”.



La lettera dice che il centrodestra al momento non ha nessun candidato da sottoporre ai grandi elettori, che ha bisogno di tempo e che il profilo da individuare deve possedere caratteristiche inequivocabili: dotato di vasto consenso in Parlamento e capace di conservare “l’opzione europea e quella atlantica”. Sono pochissime le figure oggi in grado di rispettare tali requisiti. Una è Sergio Mattarella. Un’altra è lo stesso Draghi. Un’altra ancora è Casini (come ipotizzato dal Sussidiario l’estate scorsa), democristiano di centrodestra ma eletto a sinistra.

Il capo del governo, dunque, nella strategia del Cavaliere non è tagliato fuori dalla corsa al Quirinale. Ora tocca a Salvini trovare un’alternativa al candidato rinunciatario. È la prova del nove per il leader della Lega, che però ha scarsissimo tempo a disposizione per concordare il nome e cercare il consenso necessario. Un’impresa temeraria. Mentre qualcuno attribuisce alla Meloni una preferenza per Draghi, sulla base dell’idea che, una volta al Colle, scioglierà il parlamento. Non c’è dubbio, invece, che Draghi – se eletto – farebbe proprio l’opposto, blindando con una figura di sua fiducia l’attuale compagine governativa. Quello di Meloni è un proposito che sembra fatto apposta per rompere l’unità del centrodestra al momento giusto, con la benedizione della sinistra.



In questi pochi giorni Berlusconi attenderà, poi nella probabilissima eventualità del flop, tornerà alla carica. E dirà che il tempo è scaduto e l’unico rimasto per garantire unità, coesione e rappresentatività internazionale è proprio lui, Mario Draghi. Il quale sa bene che può approdare al Quirinale soltanto dalla quarta votazione. Le prime tre serviranno a mostrare che non ci sono alternative.

E il governo? Chi prenderà il posto di Draghi a Palazzo Chigi? È la domanda che si rincorre da giorni per sottolineare le difficoltà dell’attuale premier. In realtà, questo è un “non problema”. Il governo Draghi è stato voluto da Sergio Mattarella, il quale ha detto ai partiti: o così o salta tutto. Lo stesso potrebbe fare Draghi una volta salito al Colle: convocare i leader e metterli con le spalle al muro. O magari prendere sul serio la proposta di Salvini che vorrebbe un nuovo governo con dentro tutti i leader, in modo che ognuno si prenda le proprie responsabilità e nessuno possa fare campagna elettorale prendendo le distanze dall’esecutivo. Draghi dunque è ancora della partita. E anche Berlusconi.

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