Le trattative sul presidente della Repubblica sembrano dimostrare la verità di Mao: grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente. Sembrano, perché per una volta è proprio il contrario: la situazione è chiarissima.
Enrico Letta ha molti motivi per essere preoccupato. Innanzitutto, per l’andazzo del centrosinistra, che ieri si è diviso tra schede bianche, voti a Mattarella e voti al pm Di Matteo. Ci sono poi le correnti del Pd. Da più parti si sussurra di un’insofferenza crescente per la strategia oltranzista del segretario: la tattica di bollare a ripetizione le altrui candidature come “irricevibili” espone l’obiettivo comune – il Mattarella bis o Draghi – al rischio di una conta, dalla quale il centrosinistra, debole com’è sul fianco pentastellato, potrebbe uscire perdente.
Un altro inconveniente si nasconde proprio nel nome di Mattarella. E se i voti crescenti non fossero affatto l’inizio di un’onda plebiscitaria? L’attuale presidente non è più al Colle, ma i telefoni funzionano e non bisogna dimenticare che l’attuale segretario generale del Quirinale, Ugo Zampetti, è stato l’educatore di Luigino Di Maio alle trame politiche. Quando, il 4 gennaio scorso, Conte riunì il gruppo parlamentare per avere il mandato a trattare sul Quirinale, i capigruppo gli dissero “vogliamo esserci anche noi”. E in quell’occasione il candidato n. 1 dei pentastellati divenne, guarda caso, proprio Sergio Mattarella. Ma Letta ha trasformato l’attuale presidente in una ri-candidatura di parte e farlo votare da gruppetti disparati non cambia la vernice dell’operazione, che rimane giallorossa.
E poi c’è Renzi, sempre più nervoso: il metodo-Letta ha bruciato Casini, forse una volta per tutte.
Dove il segretario Pd segna un punto a proprio favore è nel vantaggio riportato sul centrodestra, con l’aiuto di Giorgia Meloni. Le divisioni sbocciate sul nome di Franco Frattini (FI: “non ne sapevamo nulla”; Lollobrigida, FdI: ci va bene anche Draghi) un’ora prima del vertice sono un indubbio successo mediatico del Pd, che Renzi ha prontamente raccolto (“show indecoroso”) alimentando la sindrome del “Fate presto”. Come se Pertini, “il presidente più amato dagli italiani”, non fosse stato eletto al 16esimo scrutinio, e Leone alla votazione n. 23.
Salvini, invece, ha preso tempo e nella notte ha rilanciato: “Votiamo un nostro nome”. Stamattina, nel quinto scrutinio, FI, Lega, FdI e centristi voteranno Casellati. Una decisione, quella del centrodestra, che segna una netta discontinuità: stop ai veti lettiani e proposta di un candidato istituzionale che potrebbe trovare consenso anche nei i 5 Stelle. Soltanto l’aula dirà se la decisione di Salvini è quella giusta, ma il capo del Carroccio potrà dire, senza timore di essere smentito, che la strada a un candidato condiviso è stata sbarrata dai veti della sinistra, indisponibile a trattare su un nome che non fosse di parte (Pd).
Un tentativo, quello di Salvini, che può riuscire ad una sola condizione: quella di avere un altro candidato, altrettanto autorevole, per ora coperto dalla presidente del Senato.
Il nome c’è. Ex ministro di centrodestra ma senza tessere di partito, avrebbe già dalla propria parte i voti di “Alternativa c’è” e anche di svariati 5 Stelle. Difficilmente in Italia viva non troverebbe qualcuno disposto a votarlo, e lo stesso vale per il Pd. Unica controindicazione: gli effetti collaterali. Se diventasse presidente della Repubblica, Draghi si dimetterebbe 30 secondi dopo.
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