Sono stati i pubblici ministeri a obbligarmi a rientrare in campo contro di loro. Come sempre. E’ questo il refrain degli ultimi giorni di campagna elettorale di Silvio Berlusconi. Per molti versi, dopo le intercettazioni a tonnellate per settimane sui giornali dei vari casi Bertolaso, poi del senatore Di Girolamo – telefoniche -, e infine di Trani, è stata per l’ennesima volta la cifra più evidente di questa campagna per le regionali. La domanda però è un’altra. C’era davvero di che aspettarsi qualcosa di diverso?



Purtroppo, la mia risposta è no. Dopo la caduta in Corte costituzionale del muro dietro il quale il governo aveva posto il più della sua difesa da improprie scorrerie mediatico-giudiziarie, cioè il Lodo Alfano, era pressoché ovvio attendersi che molte Procure d’Italia tirassero fuori in campagna elettorale le indagini più ricche di intrecci tra politica e amministrazione, e tutte le intercettazioni possibili e immaginabili che potessero riferirsi al premier, ai suoi collaboratori, al suo partito.



Se sedici anni di confronto giudiziario su Berlusconi non ci hanno insegnato nemmeno questo, e cioè che a ogni strategia sbagliata di ridimensionamento istituzionale del problema ne segue una recrudescenza da parte della magistratura, al fine di rendere impraticabile ogni nuovo tentativo di “scudo al presidente”, allora vuol dire che non si è capito proprio nulla, di questo nodo che – sbaglierò – ormai ha spazientito non solo coloro che da sempre sono convinti che Berlusconi è un “nemico”, ma anche molti elettori moderati che non sono più disposti a invecchiare registrando semplicemente che questo problema resta sempre eguale, senza soluzioni.



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Vedremo tra pochi giorni se e come questa delusione dei moderati – a me sembra palpabile, posso naturalmente sbagliare – si manifesterà, e in che proporzioni. In ogni caso, la tigna di Berlusconi non è più la soluzione giusta. Né quelle indicate dai suoi avvocati-parlamentari, i veri responsabili dello straordinario insuccesso in cui si è risolto il Lodo Alfano, che ha rispalancato le porte alla recrudescenza sul premier.

Bisognerebbe tentare di legare l’ultima fase del governo a quella riforma seria dell’ordinamento giudiziario – nulla a che vedere con leggi elaborate per proteggere il premier – che da sedici anni è stata promessa, e che è molto diversa e lontana dagli interventi a spezzoni e dai pacchetti-sicurezza realizzati in concreto dal centrodestra. Levare la facoltà di impugnativa ai pm in caso di assoluzioni in primo grado, per esempio, visto che se condannati poi in Appello non si ha diritto a un nuovo giudizio di merito ma solo di legittimità, mentre in nessun paese civile dopo essere stati assolti si può finire condannati per la stessa cosa. Affidare il giudizio sulle misure cautelari richieste dai Pm non al Gip monocratico ma a un collegio di tre giudici di Corte d’Appello. Abbassare da tre a due il numero dei componenti dei collegi di Corte d’Appello, recuperando per questo solo fatto il 50% delle risorse umane per smaltire gli arretrati. Ripristinare il patteggiamento in Appello, l’articolo 599 del cpp che è stato cancellato.

L’elenco è lungo, e sono tutte proposte sulle quali il consenso delle commissioni di riforma tecniche è agli atti. Sulle intercettazioni, limitazioni drastiche. Il caso di Trani, che non finirà in nulla tranne alimentare fuochi e sdegni reciproci,è la miliardesima riproposizione del cattivo vezzo di alcuni, ormai molti, pubblici ministeri, e di moltissima stampa italiana di entrambi i colori politici, a dire il vero, perché i bastonatori mediatici di destra e di sinistra ormai sono del tutto analoghi. La vedremo, questa riforma? Se la risposta è no, la colpa non è dei pm. Gli elettori possono anche pazientare 16 anni. Ma non è detto che continuino a pazientare per sempre, prima di cambiare idea.