Questo che si è appena concluso sembra essere stato un agosto terribile, uno dei più terribili della storia recente: dopo la tragedia del collasso del ponte di Genova, la crisi umanitaria della Diciotti e gli scenari, interni e internazionali, che essa lascia intravedere.
Il provvidenziale intervento della Chiesa ha risolto il problema dei migranti eritrei, ma non ha risolto — né poteva — i problemi che questa vicenda, per l’ennesima volta, pone all’ordine del giorno della politica nazionale ed europea, e che rendono preoccupante il futuro dell’Italia e dell’Unione.
Sull’iniziativa di Salvini, che replica in peius la vicenda dell’Aquarius, non credo che ci sia molto da dire: come già ho scritto sulle pagine di questo giornale, è assolutamente inconcepibile che la sorte di questi ultimi della terra sia nuovamente ridotta a strumento di lotta politica, interna e internazionale. E proprio per questo — devo aggiungere — non condivido la prospettiva, dominante nei media più accreditati, che fa oggi prevalere i profili giudiziari di questa vicenda su quelli umanitari: lo scandalo è morale prima che giuridico, ed a “scandalizzarsi”, perciò, devono essere chiamate le coscienze, prima ancora di discettare sui rapporti tra i poteri dello Stato.
Si legge che qui “la posta in palio è, se non la tenuta, la qualità democratica del Paese” e che ne risulta confermata “con buona pace delle anime belle … la natura tecnicamente ‘eversiva’ dell’alleanza legastellata”. Il guaio è che a scrivere questo siano proprio i commentatori e i giornali che più ferocemente si opposero, appena qualche mese addietro, all’ipotesi di un accordo tra M5s e Pd e che fecero da autorevole e decisiva sponda al diktat renziano, che consegnava il primo alla Lega e mandava il secondo a comprare pop-corn.
Purtroppo, il pasticcio è stato fatto e venirne fuori sembra molto difficile. A venirne fuori non giovano, sicuramente, le giornaliere “contumelie” che si rovesciano sull’avversario: non perché non le meriti, ma perché, nel modo in cui son fatte, sono controproducenti. Come insegna la storia del ventennio berlusconiano, per due gravi e concomitanti ragioni.
La prima è che queste contumelie finiscono puntualmente per fornire nuovo carburante all’ascesa del leader leghista: gli spietati sondaggi del dopo-Diciotti, commentati da Ilvo Diamanti su Repubblica, confermano che — come già per Berlusconi — più accesi e continui sono gli attacchi (anche quando si mostrino del tutto fondati) e più aumentano i consensi. Il che non significa certo che bisogna trattenersi dalle critiche, anzi. Significa, invece, che le critiche vanno mirate per bene. Ad esempio non si può dire che il problema dei migranti sia solo un’invenzione propagandistica di Salvini perché nell’ultimo anno gli sbarchi si sono ridotti a meno di un decimo, giacché questo significa negare quel che per anni si è detto e che ancora si dice, e cioè che le migrazioni dal sud del mondo sono un fenomeno epocale, con il quale i paesi del nord opulento dovranno fare i conti per tutti i prossimi decenni.
La seconda, e più grave, è che il dedicarsi a questa strategia estenua chi la pratica, ne svuota ogni identità e ne occulta il fallimento dietro alleanze fittizie. Sul nudo anti-berlusconismo si è consumata (anche) la crisi della sinistra, l’accantonamento dei contenuti sociali di un tempo e la sua progressiva evaporazione in un fronte che per tenere insieme tutti, da Monti a Bertinotti, ha prodotto solo disillusione e rancore. Allo stesso modo l’anti-leghismo facile di questi tempi è l’espediente, infruttuoso, con cui, pervicacemente, si sfugge al merito di quel che il voto del 4 marzo ha imposto all’agenda politica.
La chiusura dei porti ai migranti è intollerabile, punto. Ma cosa facciamo per ribaltare questo trend che destina l’Italia e/o gli altri paesi che si affacciano sul Mediterraneo a far da campo-profughi dell’Europa, da marca di frontiera deputata a garantire la tranquillità del nuovo impero carolingio? Andiamo offesi e compunti a Bruxelles per ringraziare delle lodi per la nostra “umanità” e chiedere che, però, ad esse si accompagni finalmente un qualche fattivo intervento? Ma va!
E che facciamo sul decreto dignità? Ci precipitiamo a rilevarne (con molte ragioni) l’inefficacia e però, subito dopo, riportiamo con soddisfatta enfasi la disapprovazione del mercati e i rimbrotti dei commissari Ue. E cosa promettiamo in cambio? Di dare “ascolto”, finalmente, al malessere, alla precarietà, alla speranza perduta, per affidarli poi a una crescita che richiede più malessere, più precarietà, più disperazione.
Ma si può mai seriamente immaginare di “convertire” così il “popolo” alla “resistenza democratica”? Si può mai seriamente pensare che l’auspicata e giornalmente propiziata rottura della famigerata alleanza legastellata riporti gli elettori al tranquillizzante approdo del Pd? E se — come chi ha appena un po’ di senso politico può facilmente intuire — il “popolo” non si converte, che si fa? Aboliamo il popolo? Via questo demos, irragionevole e fegatoso, nel nome della democrazia. Ma che democrazia sarebbe mai questa senza popolo?
Ci vorrebbero le analisi radicali e lungimiranti che nessuno fa più e un progetto che vi risponda hic et nunc ma oltrepassando la contingenza, e soprattutto ci vorrebbe un nuovo “racconto” che lo sorregga, un racconto che susciti emozioni e sentimenti e che, proprio per la coscienza e la speranza che promuove, schiuda le porte a nuove alleanze ed a progressivi e nobili compromessi: ma niente di tutto questo si intravede all’orizzonte.
L’Italia sta male, ma l’Europa non è messa meglio. All’inizio di agosto Massimo Cacciari ha lanciato un appello: “L’Europa è sull’orlo di una drammatica disgregazione … c’è il rischio che si formi il più vasto schieramento di destra dalla fine della Seconda guerra mondiale”.
Il rischio c’è, ed è elevatissimo: la Merkel è sotto il ricatto, xenofobo e sovranista, del suo stesso alleato storico, la Csu di Seehofer; Macron vede precipitare il suo gradimento dal 63 al 33 per cento; ai paesi di Visegrad si è aggiunta l’Austria; i Balcani sembrano seguirla; infine, è abbastanza verosimile che la rappresentanza del socialismo europeo nel parlamento che il prossimo anno si dovrà eleggere diventi pressoché marginale. Nessuno di questi probabili eventi sarebbe, di per sé, drammatico. Ma tutti insieme lo sono per quello cui preludono, ossia una maggioranza, o comunque una presenza radicalmente condizionante, delle forze cosiddette sovraniste.
Eppure: vorrei sbagliarmi, ma non sembra che l’appello di Cacciari abbia riscosso un grande successo e che abbia ricevuto l’adesione di chi non era già abbastanza scontato che la desse. Su questo occorre, allora, interrogarsi.
Il rischio c’è — si è detto —, e mi sembra elevatissimo. Ma la domanda è: in cosa propriamente consiste questo rischio?
Le regole sono racchiuse nei trattati, che non sono nella disponibilità dell’assemblea dell’Unione. E d’altronde, per come sono distribuiti i poteri all’interno della costruzione europea, il parlamento non può fare moltissimo: in fondo, le decisioni cruciali sono ancora riservate ai capi di Stato e di Governo e alle istanze dei diversi ministri degli Stati membri. Si può immaginare che un parlamento a forte condizionamento “sovranista” spinga la commissione ad allentare un po’ il rigore con cui solitamente ha esercitato il controllo sulle politiche e sui bilanci degli Stati membri. Ma questo, per un verso, non sarebbe poi tanto male e, per l’altro, si può pensare che verrebbe bilanciato dall’influenza restrittiva che un orientamento sovranista, verosimilmente, eserciterebbe sulle politiche della Bce. Certo, il clima cambierebbe, e molto. Ma da temere avrebbe soprattutto il solito “muro basso”: a farne le spese si può immaginare saranno i migranti, verso i quali un tal parlamento adotterà, o costringerà gli Stati membri ad adottare, politiche di duro rigetto. Non è affatto poco, per niente. Ma non viene propriamente da qui il rischio di “drammatica disgregazione” che si può paventare: fosse solo per questo l’Unione acquisterebbe un volto ancora più sgradevole, ma non imploderebbe, perché, in fondo, tutto questo non contraddice troppo gli egoismi nazionali che fin qui ne hanno orientato l’azione.
Il rischio viene non tanto da quel che un tale parlamento potrebbe fare, ma da quello che certamente non farà e da quello che prenderà il posto di questo suo immaginabile non-fare.
L’Unione già così è destinata a non reggere a lungo. Dicendolo in breve: il principio di concorrenza, su cui è costruita, non concerne solo i privati e le loro economie, ma include, e in modo ancor più stringente, gli Stati e le loro economie nazionali; Pil, tassi di investimento e di occupazione, bilance commerciali etc. rimangono del tutto distinti e assunti a misura del range che diversifica ciascuna economia nazionale (ed il relativo paese), ne condiziona la crescita ed il peso e la contrappone alle altre in una competizione senza quartiere; sta qui, appunto, il germe della dissoluzione, poiché, comunque vada, la concorrenza — come ogni lotta — ha alla fine vincitori e vinti e non è detto che i vinti, alla lunga, accettino di rimanere nel gioco e di sopportare il peso della sconfitta.
A questo germe, che dall’inizio si annida nella sua costituzione, l’Unione può reagire non chiamando a raccolta contro i populismi, ma solo immaginando un’Europa politica, che concepisca le molte “patrie” di cui si compone come il suo popolo e che lo governi non secondo la logica della concorrenza reciproca ma secondo quella della solidarietà, la quale fa intendere a ognuno che ci si salva solo insieme agli altri, e che perciò, per salvarsi, ognuno deve rinunciare a parte del proprium per far sì che gli altri possano tenere il suo stesso passo.
Ma per far questo, ancora una volta, ci vogliono analisi, progetto e “racconto”. L’Unione ha drammatico bisogno di un nuovo collante, perché quello con cui si è tenuta insieme, il pensiero unico ordoliberale, ormai non tiene più.
Il rischio di un’avanzata “sovranista” sta, allora, in ciò, che il posto del vecchio collante ordoliberale sia preso da un collante nazionalista, che radicalizza gli egoismi facendo immaginare che ognuno (e, quindi, ogni paese) può salvarsi da solo, magari cacciando con violenza il diverso che chiede di essere anch’esso salvato.
Questo rischio è altissimo perché il nazionalismo ha il suo humus proprio nella “ideologia della società liquida”, che — occorre dirlo — ha nel pensiero ordoliberale il suo credo e nei dispositivi dell’Unione il suo braccio secolare.
Allora un appello, che voglia muovere le coscienze sopraffatte dal rancore o intorpidite dall’indifferenza, deve darsi in modo da non potere esser preso per una generale “chiamata alle armi” contro i populismi, che mette insieme tutti e finisce per lasciarli nella loro liquida solitudine, ma deve procedere dal “racconto” della solidarietà, articolarlo sulle condizioni, materiali e spirituali, di esistenza di ognuno e mirare così alle emozioni ed ai sentimenti. Forse per questo l’appello di Cacciari non è ancora abbastanza.