Da tempo Nicola Zingaretti cercava un tema per complicare ulteriormente il suo rapporto con l’elettorato, che già si trova a livelli problematici. L’ha trovato intrecciando regionali, referendum e legge elettorale. Quest’ultima è una questione famosa per non scaldare i cuori, una faccenda che appassiona soltanto i tecnici delle architetture istituzionali e indispettisce l’elettore medio, il quale già si trova di fronte a sistemi diversi per sindaci, regioni, Camera e Senato e viene ulteriormente disorientato quando, a scadenze di tempo più o meno regolari, salta fuori qualcuno che vuole cambiare il sistema di voto, complicandolo ulteriormente.
Qualche settimana fa Goffredo Bettini, uno degli strateghi dell’asse Pd-M5s, ha fatto notare a Zingaretti che il Sì al taglio referendario dei parlamentari senza un contestuale cambio della legge elettorale squilibra pesantemente la situazione: meno parlamentari scelti con un maggioritario corretto rischiano di distorcere ulteriormente il rapporto tra elettori ed eletti. Così il segretario Pd ha vincolato l’ok al referendum (che il Pd non ha mai digerito, al punto da aver votato No in 3 passaggi parlamentari su 4) a un nuovo sistema elettorale proporzionale. Un meccanismo inizialmente voluto anche da Matteo Renzi in quanto è il più favorevole ai piccoli partiti, ma che ora l’ex premier ha abbandonato. Su questo punto anche Forza Italia ha raffreddato l’interesse iniziale.
In questo modo, in mezzo al guado è rimasto proprio Zingaretti. Che ieri al Corriere della Sera ha detto che si accontenterebbe non di una piena riforma elettorale contestuale, ma almeno approvata da un ramo del Parlamento, anche solo in commissione Affari costituzionali. All’apertura del Pd ha fatto seguito un segnale sostanzialmente positivo dal M5s: il capo politico Vito Crimi ha detto che il movimento è “disponibile a dare il proprio contributo in ogni momento”.
È chiaro che in 20 giorni, subito dopo le ferie, è impossibile arrivare a un voto su una nuova legge elettorale che metta d’accordo due partiti che in un anno di governo assieme non hanno mostrato grandi slanci comuni. E poi bisogna trovare un’intesa anche con i renziani, i quali non hanno mai regalato nulla al governo Conte 2 benché il loro leader ne sia stato il promotore. Ma è altrettanto chiaro che la partita sul referendum s’intreccia con le regionali e con le mosse per avvicinare maggiormente il Pd e il M5s, fino a favorire un travaso di voti per i candidati governatori di sinistra (per i sindaci sarà diverso in quanto la convergenza sarà favorita dal doppio turno). Sulle 7 regioni al voto, in 2 di esse il centrodestra va sul sicuro (Veneto e Liguria) mentre in Toscana, Marche, Puglia (la Val d’Aosta fa storia a sé), ora in mano alla sinistra – che va sul sicuro in Campania –, i due schieramenti sono dati testa a testa.
Il Pd ha dunque bisogno come l’aria di catturare i voti dei grillini in caduta libera nelle regioni, e nello stesso tempo non può lasciare che essi s’intestino tutto il merito di un’eventuale vittoria referendaria del Sì. Zingaretti si ostina a sostenere che la riduzione dei parlamentari appartiene alla tradizione riformista del centrosinistra, eppure il partito (allora Ds e non ancora Pd) votò contro la riduzione proposta dal centrodestra nel 2005, e non sprizzò entusiasmo contro l’operazione simile messa in campo da Renzi nel 2016.
Le schermaglie sulla legge elettorale hanno dunque come sfondo lo scambio di voti alle regionali. Pd e M5s devono aiutarsi vicendevolmente. Sperando che la partita delle regioni finisca almeno 3-3. Se fosse un 4-2 per il centrodestra, i grillini canteranno vittoria per la probabile vittoria referendaria del Sì. Ma i democratici quasi certamente dovranno trovarsi un altro segretario.