Conte e Zingaretti hanno trovato un accordo per resistere anche a un’eventuale sconfitta alle elezioni regionali 2020. Lo ha rivelato ieri Repubblica. Basterà? Secondo Stefano Folli, editorialista del quotidiano diretto da Maurizio Molinari, “se Pd o M5s perdono le regionali e il referendum, quell’accordo non varrà più nulla”. Per Folli tutti i possibili sviluppi passano dai risultati del Pd, soggetto a grandi spinte e controspinte interne. Se l’esito sarà sotto le aspettative, il rimpasto è una possibilità; se invece i dem saranno davanti ad una sonora sconfitta, “si va probabilmente verso una crisi, anche se non subito” dice Folli, che però esclude le urne: “più plausibile che si vada ad un cambio di governo”.



L’accordo Zingaretti-Conte può davvero salvare l’esecutivo?

I patti della vigilia servono a poco. Chi ha tutto l’interesse a reggere è logico che cerchi di tutelarsi, quindi è comprensibile che Conte e Zingaretti abbiano unito i loro sforzi. Sul piano pratico, però, è un accordo che dura finché le condizioni sono favorevoli.



Altrimenti?

Nel momento in cui cui uno o entrambi i partner di coalizione fossero sconfitti, non varrebbero la carta su cui è stato scritto.

La crisi di M5s minaccia o aiuta la sopravvivenza di Conte e del Pd a palazzo Chigi?

I Cinquestelle hanno la maggioranza in parlamento e sono in crisi evidente, ma non hanno una strategia politica diversa da quella di stare aggrappati al governo. A maggior ragione se vincerà il Sì al referendum. Il vero problema riguarda il Pd. Il partito democratico è sottoposto a pulsioni interne sempre più forti.

Questo cosa comporta?

Se il binomio di governo Pd-M5s va in crisi, ciò avverrà soprattutto dal lato del Pd. I segnali ci sono.



Il più importante?

La candidatura ufficiosa di Bonaccini alla segreteria del partito. Vuol dire che il mondo che ruota intorno a Zingaretti è molto precario. Se lunedì Zingaretti risulta sconfitto, non so quanto le dimissioni siano evitabili. Altro che andare al governo… E tutto il partito entrerebbe in una fase di grande subbuglio.

A Bonaccini è stato collegato un possibile ritorno di Renzi nel Pd. Lei cosa dice?

È chiaro che Bonaccini, se toccasse a lui, dovrebbe dare un’impronta nuova alla sua segreteria, allargare il campo degli interlocutori, e far rientrare gli scissionisti di destra, come Renzi, o di sinistra come Bersani sarebbe nelle cose. Per ora va detto che lo scenario-Bonaccini è solo una suggestione giornalistica.

Ma potrebbe concretizzarsi dopo una grave sconfitta del Pd.

In quel caso sì, perché la sconfitta smuoverebbe gli assetti al vertice. La vera sfida, però, è cosa vuol essere il centrosinistra. Servono idee e finora Bonaccini non ne ha messo in campo neppure una, limitandosi a enunciazioni generiche.

C’è una parte del Pd, quella di Orlando, che chiede un tagliando al governo. Un’altra parte, rappresentata da Franceschini, è per non toccare nulla…

Se lunedì i due partiti vanno bene, il problema del rimpasto non si pone, al limite si cambiano un paio di ministri minori. Se invece le cose vanno molto male, il rimpasto è una medicina troppo blanda.

In questo caso?

Si va probabilmente verso una crisi, magari non subito.

Lei ha scritto che la maggioranza cerca di scacciare l’ombra della crisi, ma che per fare un rimpasto come ai vecchi tempi manca un regista. Non potrebbe essere Mattarella?

Ma Mattarella non è un presidente invasivo, il suo stile è la non ingerenza. In questo caso non è questione di moral suasion, ma di peso politico specifico. La Dc lo aveva, faceva affidamento sulle sue correnti interne e sugli alleati. Il Pd, in questo momento, anche con il 19-20%, non è un partito vitale, impersona più che altro una mancanza di alternative, ed M5s evidentemente non è regista di nulla.

Non crede che un insuccesso del Sì – e di M5s – al referendum, e cioè una vittoria del No, come ha scritto su Repubblica, sia un’ipotesi dell’irrealtà?

Resta un’ipotesi da contemplare e visto che si tratta di un referendum non possiamo escludere nulla. Non credo che possa vincere il No, ma il No ha avuto una rimonta.

Dove sta l’incognita?

Tutti, anche i favorevoli alla riduzione dei parlamentari, si sono ormai resi conto che il Sì sarà una vittoria dei 5 Stelle, l’ultima possibilità di vantare un risultato dopo che hanno bruciato tutta la loro credibilità politica. E questo potrebbe pesare nell’urna.

In che senso?

Nel senso che molta gente, magari genericamente favorevole a una riforma del parlamento, al dunque potrebbe far prevalere una considerazione politica generale e cioè la non convenienza di dare una vittoria a M5s. Non tanto votando contro il governo, quanto proprio contro i 5 Stelle.

Un altro scenario?

Si può ipotizzare che le elezioni regionali vadano benino per il Pd e che i 5 Stelle, anche se è improbabile, perdano il referendum. Non credo affatto che in tal caso il governo sarebbe indebolito, perché il Pd si sentirebbe più forte e porrebbe alcune condizioni che finora non ha posto, mentre i 5 Stelle subirebbero una batosta imprevedibile ma non avrebbero nessun motivo per mollare il governo. In questo caso il patto Zingaretti-Conte da cui siamo partiti funzionerebbe.

Secondo Renzi l’ostilità di M5s al Mes “è una posizione ideologica che passerà dopo le regionali”. È così?

Nello scenario un po’ fantascientifico che abbiamo fatto adesso, sarebbe inevitabile; negli altri possibili scenari, vedremo. In ogni caso sono portato a credere che i 5 Stelle prenderanno il Mes, magari tra un paio di mesi, ma lo prenderanno, perché l’insieme delle circostanze va in quella direzione e Conte ha fatto capire più di una volta di essere pronto a chiederlo. Anche per il Mes i risultati di lunedì potrebbero cambiare le carte.

Due domande finali. Qual è l’esito di lunedì che Zingaretti e Conte non possono assolutamente permettersi?

Soprattutto una grave sconfitta del Pd alle regionali, e poi una vittoria del Sì talmente plebiscitaria da montare la testa ai 5 Stelle.

E il risultato che invece Salvini e Meloni devono scongiurare?

Qualsiasi scenario che stabilizzi il governo, come un Pd che va bene e un M5s che non trionfa nel referendum.

Siamo davanti al passaggio politico più importante della stagione?

Sì, perché si decide cosa succede da qui alle elezioni del capo dello Stato nel gennaio 2022.

Ma niente elezioni politiche.

Ci credo poco. Se le cose dovessero andare male per Conte, M5s e Pd, è più probabile che si vada ad un cambio di governo. Si tratta di gestire i fondi del Recovery Plan, che fanno gola a tutti i partiti. E lasciare tutto in mano a Conte piace a pochi.

(Federico Ferraù)