Caro Direttore,
le settimane di questa campagna elettorale, tanto breve quanto entusiasmante e ricca di incontri, mi hanno restituito uno “spaccato” della nostra regione, necessariamente limitato ma anche rappresentativo di una terra e di un popolo straordinari.

Una terra e un popolo che, con 950 mila imprese, producono il 22% del Pil nazionale. Nonostante l’alternarsi di crisi economica, pandemica ed energetica, qui il tasso di occupazione si attesta al 68,3%, ben sopra la media nazionale (60,5%). Una terra attrattiva, con un terzo degli addetti (il 32,3%) delle imprese estere presenti sul territorio nazionale e il 38% del valore aggiunto. Un popolo capace di generare economia civile con oltre 58mila tra imprese sociali e realtà non profit, che sono il 16% dell’intero comparto a livello nazionale e contano 193.600 dipendenti (il 22,5% del settore in Italia).



Il merito di ciò non è di chi governa, ma di quanti vivono la Lombardia. Chi governa però può fare la differenza: può ostacolare, può vessare, oppure può valorizzare e facilitare. Giorgia Meloni ha ben sintetizzato questa concezione nella frase pronunciata nel suo discorso programmatico alla Camera dei deputati: «Non disturbare chi vuole fare». Dunque, quale compito spetta a chi ha deciso di aderire al progetto di partito conservatore lanciato proprio dalla leader di FdI e con il quale il Centrodestra sembra aver trovato la via d’uscita dal populismo in cui pure era caduto? Quello di conservare un metodo di buon governo, che è stato capace di dare forma e applicazione al principio di sussidiarietà, ma per innovare e riformare laddove necessario.



Voglio esemplificare con alcuni impegni che desidero assumermi con gli elettori. Innanzitutto la creazione di un Fondo Welfare alimentato da flussi di finanziamento diversificati (donazioni, contrattazione integrativa, programmi fedeltà connessi alla spesa quotidiana dei cittadini, ecc.), al fine di garantire nuove tutele e contrastare il fenomeno del ritiro sociale (soprattutto tra i giovani), sempre meno in chiave assistenziale e sempre più nell’ottica di sviluppare l’autonomia delle persone, coinvolgendo attori pubblici, privati profit e non profit, realtà associative, scuole-bottega, centri di solidarietà e quelli di ascolto delle parrocchie, ecc. Un altro fronte di impegno sarà quello del lavoro, rafforzando la capacità di Regione Lombardia di dotarsi di lavoratori preparati ai continui e rapidi cambiamenti del mercato e di intercettare nuove figure professionali.



Non partiamo dal nulla. Qui in Lombardia siamo stati i primi a sfruttare a pieno il programma europeo Garanzia Giovani. Siamo i primi ad attivare la Garanzia Occupabilità dei Lavoratori (GOL), prevista dal PNRR e per la quale sono stanziati 5 miliardi in totale. Siamo i primi perché qui c’è un sistema di formazione professionale e insieme di politiche attive che funziona. Il canale dell’Istruzione e Formazione Professionale, per cui soggetti accreditati erogano corsi finanziati dalla Dote regionale per il 20% della popolazione studentesca, garantisce a oltre il 90% dei ragazzi che li frequentano di trovare un lavoro al termine del percorso. Oppure il 70% dei beneficiari della Dote Unica Lavoro firma un contratto dopo aver frequentato corsi di riqualificazione professionale per quanti hanno interrotto la propria carriera lavorativa. Bisogna continuare su questa strada, ma con alcune attenzioni. Uno degli aspetti più delicati in mano alle regioni, relativamente alla spesa delle risorse legate alla GOL, è quello della definizione e classificazione del grado di occupabilità di ogni persona. Da qui ne deriverà la quantità di risorse da mettere a disposizione per le azioni di re-inclusione nel mercato del lavoro. È del tutto evidente che bisognerà incentivare di più agenzie per il lavoro e altri soggetti accreditati a dedicarsi ad ex lavoratori più maturi e più difficilmente occupabili di quanto non lo sia chi è all’inizio o deve ancora entrare nel mercato del lavoro.

Altra sfida da vincere sarà quella della formazione continua di chi è già occupato, poiché la trasformazione digitale esige sempre più nuove figure professionali per le quali non esistono ancora percorsi formativi. Allora, anche in questo caso occorrerà innovare conservando il metodo della sussidiarietà. Le aziende, specie quelle piccole e medie, temono di sostenere una spesa per l’aggiornamento dei propri dipendenti che poi finisca per spingere questi ultimi a collocarsi altrove. Regione Lombardia potrebbe offrire a costi zero per il suo bilancio percorsi di questo genere (privilegiando il finanziamento attraverso voucher di quelli promossi da enti accreditati) attraverso un mix di risorse diverse. Si dovrà pensare di utilizzare la leva di fondi europei per incentivare l’impiego di quelli interprofessionali (alimentati dallo 0,3% dei contributi versati all’Inps e gestiti dalle organizzazioni datoriali e sindacali) e dare un deciso impulso alla formazione continua dei lavoratori occupati e la riqualificazione delle loro competenze professionali. Ne otterremo il mantenimento di alti livelli occupazionali, permetteremo la mobilità professionale dei lavoratori e contribuiremo così alla maggiore competitività delle imprese stesse.

Infine, mi sia consentito di chiudere con un “nota bene” di natura più strettamente politica. Dopo quasi trent’anni di buon governo in Lombardia, improntato alla sussidiarietà, quasi tutti i candidati presidenti e tutti gli schieramenti parlano di questo principio. Tuttavia nella migliore delle ipotesi intendono l’esternalizzazione di un servizio. Nella peggiore una cinghia di trasmissione del potere centrale attraverso cooperative e associazioni considerate politicamente “vicine”. La sussidiarietà non può essere solo una tecnica di governo più efficace di altre, perché magari garantisce al tempo stesso servizi e risparmi di spesa pubblica. Il contenuto della sussidiarietà è la libertà: l’istituzione deve considerare i corpi intermedi nella loro piena autonomia, fino a salvaguardarne la libertà d’esprimere l’ideale o la fede che muovono a fare un’opera. Il movente ideale deve avere cittadinanza nello spazio pubblico e non deve essere ostracizzato in nome di una malintesa nozione di laicità, che finisce per svuotare lo spazio pubblico e – come ci ha spesso ricordato Benedetto XVI – renderlo indifferente rispetto alla questione della verità.

Vivere “dal basso” rapporti di verità, giustizia, amore al prossimo, reciprocità, a partire dalla famiglia d’origine e dalla comunità d’appartenenza, è ciò che anima opere sociali, offre ragioni per realizzarne e più in generale dare origine a libere iniziative che rispondono alle esigenze di una convivenza (la scuola dove crescere i figli, l’ospedale dove curare con amore e dignità dal concepimento alla morte naturale, dare un lavoro improntato a rapporti di giustizia, ecc.). Se non si vivessero e sperimentassero già rapporti di verità, giustizia, reciprocità e gratuità difficilmente si arricchirebbe la società di opere di carità o di imprese in cui il profitto non sia l’obiettivo esclusivo da perseguire. Anche nell’attuale panorama politico, dunque, non possiamo non chiederci quale schieramento e quale partito tenga in maggior considerazione, almeno in termini di principio, la libertà come vera origine della sussidiarietà. Alcuni hanno introiettato al loro interno l’idea che si possano ricomprendere come pubblici servizi educativi offerti anche da scuole paritarie, purché i contenuti trasmessi siano quelli del mainstream imposti dalla mentalità dominante. Ancora una volta non tutte le offerte politiche sono quindi uguali. Ecco perché ho deciso di impegnarmi nuovamente, dopo dodici anni da consigliere comunale della mia città. E di farlo a sostegno di Attilio Fontana, nella lista di Fratelli d’Italia.