A tre giorni dal round decisivo nel voto francese, il “teorema Starmer” è già pronto al di qua della Manica, nell’Europa continentale che Londra considera sempre proverbialmente “isolata” e da cui si è staccata nel 2016.
Dunque: dopo 14 anni di “follia di destra” – segnati dallo strappo della Brexit – la Gran Bretagna con il voto di ieri si sarebbe “pentita”, indicando la strada anche ad altre democrazie occidentali. Il ritorno dei laburisti a Downing Street – scontato dai sondaggi e certificato dai primi exit polls – sarebbe l’ennesima lezione di storia narrata in tempo reale dalla più antica liberaldemocrazia del pianeta: il populismo (di destra…) è sempre perdente, anche quando rivestito dalle sartorie di Oxbridge e della City, che da sempre tagliano i gessati dei Tory, nell’ultima fase da David Cameron a Boris Johnson, da Theresa May e Liz Truss fino a Rishi Sunak. Non sembrerebbe dunque esservi alternativa a una “buona sinistra”: anzitutto quella laburista, peraltro poco omologabile con la socialdemocrazia formato Ue. La svolta di Londra parrebbe d’altronde raccomandare che alla guida di una sinistra di governo “responsabile” vi sia un avvocato centrista come Keir Starmer, con pochissimi grilli per la testa e ai limiti del grigiore mediatico.
Se il “teorema Starmer” venisse in qualche modo verificato in Francia domenica prossima, forse il “Fronte repubblicano” lanciato dal presidente Emmanuel Macron potrebbe avere qualche chance: magari affidando la guida di una coalizione di governo anti-Rassemblement National a una personalità della sinistra moderata come Raphaël Glucksmann. Quel che è certo è che un premier francese di questo profilo – in coabitazione “dolce” con l’Eliseo – ritroverebbe a Matignon le stesse sfide (le stesse spine) che da lunedì attendono Starmer a Downing Street.
L’Inghilterra (la Gran Bretagna) e la Francia sono due Paesi in crisi non diversamente dagli altri grandi Paesi europei. Non è solo responsabilità dei loro governanti: il Covid e poi la crisi geopolitica hanno colpito duramente dall’esterno le leadership. Boris Johnson a Londra aveva vinto a mani basse le elezioni di fine 2019 e aveva fischiato l’inizio della Brexit effettiva pochi giorni prima che la pandemia sbarcasse anche sulle isole britanniche. In quei giorni Macron, enfant prodige approdato due anni prima all’Eliseo, aveva annunciato l’apertura di una fase rifondativa della Ue, assieme ad Angela Merkel: cancelliera veterana ma ancora “con pieni poteri” in Germania e nell’Unione. Nulla è andato secondo le attese e i desideri di quei leader. Che però ci hanno messo parecchio del loro nella gestione delle crisi.
In Gran Bretagna, in particolare, le prime politiche anti-pandemia – nettamente populistiche – hanno minato la credibilità di Johnson, che di Covid ha rischiato pure di morire. E la pandemia ha decretato quasi sul nascere il fallimento della rischiosa scommessa del Leave: il teorema secondo cui il malessere progressivo di una parte crescente della popolazione britannica fosse effettivamente imputabile ai lacci e laccioli di Bruxelles, Parigi e Berlino. Ma non è stato meno ideologico il tentativo – oltremodo azzardato – di Truss, durata solo cento giorni dopo “BoJo”: il tempo di annunciare un approccio iperliberista di taglio delle tasse, con l’unico risultato immediato di spaventare i mercati finanziari sulla sterlina e sul debito pubblico d’Oltremanica. Ma anche nelle mani di Sunak – miliardario di radici indiane – la presa di Downing Street sull’economia e sulla società del Regno Unito si è fatta più debole e incerta.
Lunghe agitazioni sindacali hanno scosso il sistema sanitario pubblico e quello scolastico. E campagne come quella che ha puntato fino all’ultimo a deportare i flussi migratori in Ruanda, hanno solo peggiorato l’immagine neo-populista dei conservatori inglesi. La spirale si è ulteriormente avvitata con la guerra ucraina, che da un lato ha visto Londra rilucidare le sue medaglie di potenza militare (soprattutto nell’intelligence); ma dall’altro ha portato più inflazione che negli Usa o nella stessa Ue. Per questo Starmer avrà appena il tempo di festeggiare un trionfo elettorale solo carico di responsabilità.
Ciò che sembra accomunare la nuova leadership britannica a quella che comunque emergerà in Francia – e a quelle che guidano Paesi come la Germania e l’Italia – è l’aspettativa forte di risposte concrete e rapide: soprattutto sul versante salariale e del welfare pubblico, ma anche su quello della crescita. Londra non deve rispettare i parametri monetari e finanziari Ue, però non può neppure muoversi sullo scacchiere geoeconomico con la massa potenziale dei Ventisette. Sul piano militare il Regno Unito è soprattutto un corsaro, anche se di prima classe: protagonista dell’allargamento della Nato all’Asia e del rilancio del riarmo occidentale. La libertà di manovra britannica è comunque sempre legata all’evoluzione della “Relazione Speciale” con gli Usa, dove la leadership “dem” di Joe Biden è insidiata nell’arco di mesi da quella di Donald Trump.
Il vero “golden asset” di Londra resta ancora la City finanziaria, che infatti ha tifato apertamente per il Labour. La rottura con la finanza dell’euro, la guerra ucraina (che ha allontanato molti oligarchi russi di casa sul Tamigi), oltre al raffreddamento dei rapporti con la Cina, hanno creato condizioni via via più sfavorevoli per il primato della City come piattaforma finanziaria globale.
Non ci vorrà comunque molto a capire se Londra cercherà nuova sponda in Europa o se la Ue troverà al di là della Manica un faro per comporre le esigenze dell’economia con schieramenti sociopolitici fratturati e polarizzati.
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