LONDRA — Il primo viaggio del nuovo mandato di Boris Johnson premier è nella contea di Durham, nel nord-est dell’Inghilterra, un’area punteggiata di vecchi villaggi di minatori per decenni roccaforti del Labour, che nella notte tra giovedì e venerdì hanno cambiato campo. Come Sedgefield, poco più di 5mila abitanti, nota soprattutto per essere stata il collegio elettorale dell’ex primo ministro laburista Tony Blair dal 1983 al 2007. Dopo 84 anni sotto il Labour, Sedgefield è passata ai conservatori.



È qui che un premier euforico si è rivolto a un gruppo di sostenitori: “Voglio ringraziare tutti voi per la fiducia che avete riposto nel partito Conservatore, e che io ripagherò”. Johnson ha detto di comprendere come sia stato “difficile” per questa gente votare per il suo partito, rompendo una tradizione solida, durata decenni, tramandata di padre in figlio. Ma il loro voto, ha aggiunto, aiuterà il paese a “cambiare per il meglio”.



Cosi almeno sperano gli abitanti di Sedgefield, e quelli dei tanti villaggi che fanno parte del “muro rosso” che è crollato nella notte tra giovedì e venerdì.

Ora per Johnson comincia la parte più difficile: governare, trovare delle risposte per i milioni di britannici che aspettano che le loro comunità, lontane dalla capitale e troppo a lungo neglette, trascurate dalla politica di Londra, possano ritrovare sviluppo, prosperare, riprendere a sperare.

Il primo passo sarà uscire dall’Unione Europea, ma poi queste comunità si aspettano l’attenzione che lamentano di non avere avuto per troppi anni. E il primo problema per il premier sarà di trovare i soldi necessari.



Intanto però Johnson deve affrontare un altro problema, ancora più pressante. Nicola Sturgeon, la leader del partito nazionalista scozzese (Snp), uscita molto rafforzata dalle elezioni (il partito ha conquistato 48 seggi sui 59 collegi elettorali in Scozia), ha detto subito di aver ottenuto un nuovo e più forte mandato per un secondo voto sull’indipendenza della Scozia.

È stato il partito della Sturgeon che ha sconfitto la leader liberal-democratica Jo Swinson nel seggio scozzese di East Dunbartonshire. Entrambi i partiti si sono posizionati contro la Brexit, ma quello della Sturgeon ha fatto leva anche sull’indipendenza della Scozia. Dove serpeggia un forte nazionalismo, che potrebbe accentuarsi alla luce del risultato pro-Brexit delle elezioni generali.

La maggioranza degli scozzesi, infatti, non vuole lasciare l’Ue e non desidera rimanere in un Regno Unito staccato dall’Ue. Così la Sturgeon non ha perso tempo e ha detto al premier che chiederà formalmente, prima di Natale, di poter indire un secondo referendum sull’indipendenza in Scozia. Nel primo, indetto nel 2014, la maggioranza aveva votato contro l’indipendenza (55% no contro 45% sì). Il referendum dev’essere autorizzato dal premier del Regno Unito e Johnson ha detto chiaramente di opporsi. Ma un rifiuto potrebbe ulteriormente rafforzare la Sturgeon in Scozia, dove i conservatori hanno sei seggi, il Labour ne ha uno e i liberal-democratici quattro.

Ieri a Dundee la Sturgeon ha festeggiato con i suoi nuovi deputati e ha detto che l’elettorato scozzese ha votato contro Johnson, il partito conservatore e la Brexit e che la maggioranza “vuole un futuro diverso” dal resto del Regno Unito.

Sul fronte laburista, invece, sono in atto manovre per la sostituzione di Jeremy Corbyn, che ha detto che non guiderà il partito alle prossime elezioni. Il nuovo leader sarà nominato a inizio del nuovo anno, prima delle elezioni locali in Inghilterra, previste per il 7 maggio.

Il partito è in subbuglio, diviso tra la corrente che addossa a Corbyn la responsabilità del risultato e quella secondo cui la Brexit ha sparigliato le carte ed è da considerare il principale responsabile della disfatta. È questa la posizione dei fedelissimi di Corbyn, come il numero due del partito, John Mc Donnell, che ha presentato le sue dimissioni dal ruolo di “shadow chancellor” del cosiddetto “governo ombra” del leader dell’opposizione.