Giuseppe Conte è andato a chiudere la campagna elettorale in Umbria per dire che, comunque vada, non sarà un voto sul governo. Anche se la coalizione giallorossa che sostiene Vincenzo Bianconi stasera dovesse uscire con le ossa rotte dalle urne di Perugia e Terni, l’esecutivo non subirà contraccolpi. Non c’era bisogno che il premier si scomodasse: l’Umbria non ha un peso tale da provocare terremoti con ripercussioni fino a Roma, se non per due aspetti. Alla prima prova elettorale, bisognerà capire se M5s e Pd si rubano voti o ne attraggono. E poi si tratta di vedere quale percentuale toccherà al M5s e se la leadership di Di Maio ne risentirà.
Ma se il premier ha deciso di presentarsi lo stesso a Narni, significa che in fondo teme un crescendo di instabilità. Le tensioni interne restano alle stelle. Conte e Di Maio dicono di avere chiarito, ma le divergenze restano. Renzi dice di non volere staccare la spina, ma non si fa vedere al comizio conclusivo per non mettere la faccia nella foto di gruppo dei probabili sconfitti. Paradossalmente, chi potrebbe guadagnare da un risultato negativo è lo stesso Conte, che vedrebbe indirettamente rafforzato il ruolo di garante e perno del traballante accordo di governo. E un assestamento gli consentirebbe anche di gestire meglio la faccenda della spy story russo-americana, in cui ultimamente il premier andrebbe a mettere una pezza a fatti che risalirebbero fino a tre anni addietro, governo Renzi-Gentiloni. Una mano lava l’altra ed entrambe sorreggono il fragile esecutivo.
I veri problemi per il governo non sono in Umbria. Stanno in Parlamento, dove la manovra dovrà passare attraverso un percorso molto accidentato visto che tutti i partiti hanno annunciato una battaglia a colpi di emendamenti. Nessuno si fa scrupolo di tirare la corda. La spregiudicatezza di Renzi e Di Maio si fonda su una convinzione: che il Quirinale non ha intenzione di sciogliere le Camere. Il governo è in sella da due mesi, c’è da approvare la legge di bilancio, l’economia preoccupa. I furbetti della maggioranza tirano perché contano sul fatto che la corda non si spezzerà.
È un calcolo estremamente rischioso. Primo, perché leggere nell’imperscrutabile mente di Mattarella è quasi impossibile. Secondo, perché dopo il governo gialloverde e quello giallorosso non c’è una terza formula che la fantasia del Colle potrebbe elaborare. Non c’è un Draghi salvatore della patria, che potrebbe scendere in campo soltanto con un accordo largo e non in una situazione di totale emergenza. E non c’è nemmeno un Di Maio a Palazzo Chigi, soluzione che forse il ministro degli Esteri non ha smesso di vagheggiare.
E poi c’è il voto nelle Regioni. La sconfitta in Umbria non sarà destabilizzante, ma porterà altro logoramento. Il flop alla prima volta in cui la strana maggioranza viene messa alla prova del consenso popolare non è certamente un buon viatico. Ma c’è soprattutto l’Emilia Romagna a gennaio, un mese dopo il varo della manovra. Lo scolaro Conte può anche sopportare di prendere un brutto voto al primo compito in classe, quello di stasera. C’è tempo per riparare. Se però dovesse rimediare un’altra insufficienza in Emilia, la bocciatura sarebbe dietro l’angolo.