Consoliamoci. Io sono tra coloro che non credono che l’Italia abbia la Costituzione più bella del mondo. Ma il sistema, con tutti i suoi limiti, ha molto da insegnare alla democrazia americana. Certo, è vero che stavolta sembra che sia stato evitato il rischio che a vincere non sia stato il partito che ha preso più voti come è invece accaduto quattro anni fa, ma restano altre limitazioni molto pesanti. A partire dai poteri del Senato che, salvo sorprese, resterà sotto il controllo del repubblicano Mitch McConnell, oggi l’ago della bilancia del potere americano.



Se il Senato resterà repubblicano (e lo sapremo probabilmente solo il 5 gennaio dopo il voto in Georgia), sarà lui ad avere l’ultima parola sulla politica fiscale, sulla riforma sanitaria, sulle politiche ambientali e sulle nomine per le posizioni chiave del potere americano, dalla magistratura alla Federal Reserve. Il problema è che questo potere, come scrive il Nobel Paul Krugman, gli viene conferito in base a una legge elettorale bizzarra per cui i 39 milioni di elettori della California hanno diritto a eleggere un solo senatore al pari dei 579 mila votanti del Wyoming. E così il nostro Mitch, da buon boss locale, ha potuto farsi eleggere per la settima volta dagli irlandesi di origine che popolano il Nebraska. Un risultato che, se confermato, gli garantirà un grande potere. Anzi, lo farà entrare di diritto nel club degli uomini più potenti, come gli è già successo con Barack Obama.



È stato McConnell, sostiene Krugman, a far mancare al Presidente il sostegno per promuovere le leggi finanziarie volute e a una politica più espansiva che si è tradotto in un paio di punti di Pil in meno. E sempre lui ha avuto un ruolo determinante nell’iter che ha permesso a Trump di nominare la repubblicana Amy Barrett alla Corte Suprema.

E così Joseph Biden si troverà a governare con due pesanti ipoteche: l’ostilità del Senato e quella, ancor più pesante, di una Corte Suprema schierata con l’opposizione, la stessa situazione che si trovò a fronteggiare Franklin Delano Roosevelt negli anni Trenta quando i giudici cercarono di far saltare le riforme del New Deal. Il Presidente replicò con la nomina di nuovi giudici, cosa oggi impossibile.



L’argomento, all’apparenza, non ci riguarda. Ma aiuta a capire perché Biden non potrà che praticare una politica di ampi compromessi superando gli asti della campagna elettorale e dando voce a quella parte della società americana che, sia tra i repubblicani che tra i democratici, vuole superare l’aspra contrapposizione degli ultimi anni. Di qui la prospettiva di un pacchetto fiscale un po’ più piccolo di quanto già previsto (perché così piace a McConnell), compensato dalla ripresa di attività della Fed che darà nuovo vigore al Quantitative easing e ai programmi di sostegno all’economia cofinanziati dal Tesoro (finanziato a sua volta dalla Fed).

Un quadro che non dispiace ai mercati soddisfatti perché si allontana, con la parziale sconfitta della sinistra radicale, una politica di severo contrasto ai monopoli dell’economia digitale. Dopo la stagione dei condottieri, insomma, tornano in sella i mediatori.