Il Financial Times ha subito consigliato Joe Biden di arruolare nella sua amministrazione alcuni esponenti repubblicani. A Washington non è affatto una prassi eccezionale. L’ha utilizzata anche Donald Trump: il dem Robert Work è tuttora in carica come vicesegretario alla Difesa. Sempre al Pentagono Barack Obama mantenne Robert Gates: l’ex direttore della Cia di George W. Bush conosceva a menadito tutte le guerre americane passate e presenti. Obama – eletto sei settimane dopo il crack Lehman Brothers – confermò per cinque anni Ben Bernanke alla Fed. Tutte mosse dettate da un galateo bipartizan collaudatissimo in un bipartitismo granitico. Scelte modulate spesso dalla necessità – per la Casa Bianca – di confrontarsi meglio con un Congresso più o meno controllato dall’opposizione. Come sarà per Biden: con i dem minoritari al Senato e più deboli alla guida della Camera.
Questa volta la prospettiva è comunque del tutto diversa. Dopo una “quasi-vittoria” non riconosciuta da Trump e una transizione indirizzata verso una “guerra civile a bassa intensità”, Biden potrebbe vedersi spinto in territori inesplorati per la democrazia americana. È per questo che alcuni osservatori ventilano già una sorta di “coalizione rossoblu”, composta dai tronconi moderati dei rispettivi schieramenti. Biden – dem ipercentrista – perseguirebbe il suo build back better sorretto da una maggioranza ibrida che avrebbe come leader-ombra “Obama Terzo”.
La coalizione sarebbe dettata dalla necessità di fronteggiare una doppia pressione dalle ali parlamentari. Da destra si profila certamente l’irriducibilità dello zoccolo duro trumpiano, definitivamente consolidato dalla “vittoria negata” del 3 novembre. Ma sul lato opposto per Biden si annuncia non meno temibile il possibile “fuoco amico” dei democratici radicali: seguaci di Bernie Sanders e della Squad rosa e multietnica capeggiata da Alexandra Ocasio-Cortez.
La politica di bilancio (tasse e spesa) si delinea come il campo di battaglia più importante: fra gli indubitabili risultati (anche occupazionali) della riforma fiscale pro-business di Trump e la crociata ideologica “anti-ricchi” dichiarata da Sanders & Co. Ma la stessa emergenza Covid – tuttora drammaticamente in corso – ha reso ben visibile nelle urne la spaccatura fra le due Americhe: quella liberal (favorevole ai lockdown e a un rilancio dell’Obamacare) e quella incarnata da un 74enne presidente-lottatore, uscito apparentemente intatto dal contagio di ottobre.
Quel che appare certo – sul fronte geopolitico – è che una “coalizione Biden” a Washington ristabilirebbe subito una sintonia perfetta con l’altra sponda dell’Atlantico: anzitutto con la coalizione per antonomasia in Europa, retta da un decennio in Germania da Angela Merkel. Per la quale si moltiplicano i pronostici di candidatura a un quinto mandato alle elezioni tedesche del 2021. La stessa governance Ue appare retta di fatto da una grande coalizione: fra popolari, socialdemocratici e liberali, in funzione autoprotettiva contro l’avanzata di tutte le forze populiste, sovraniste e antagoniste (con i Verdi ancora in terra di nessuno).
La squadra di vertice in carica a Bruxelles è simbolica: il presidente Ursula von der Leyen è espressa dal Ppe; il primo vicepresidente Frans Timmermans (con delega al Green New Deal) dal Pse; l’altra vicepresidente vicaria, il capo dell’Antitrust Margrethe Vestager, viene dalle file Alde. È un’Europa che nel quadriennio trumpiano ha visto scendere al minimo storico lo stato delle relazioni atlantiche con l’America First di The Donald. Ed è una Merkel che – virtualmente – dal 2016 custodisce una sorta di eredità politico-morale dell’obamismo, che l’ultimo inquilino dem alla Casa Bianca volle personalmente lasciare a Berlino nel dicembre 2016, ospite a cena della cancelliera.
E l’Italia? È un Paese che Biden – al di là dell’impegno di vicepresidente Usa dal 2008 al 2016 – conosce attraverso un prisma specifico: il Forum Ambrosetti di Cernobbio, di cui è stato assiduo frequentatore, così come del Wef di Davos. Un tipico crogiolo globalista e bipartisan, Cernobbio: vero incubatore, fra l’altro, del governo Monti. Un mondo che, ancora due mesi fa, ha ospitato il premier Giuseppe Conte (in una rarissima puntata nel Nord Italia durante la pandemia), ma lo ha tenuto a inequivocabile distanza: così come ha sempre fatto con Luigi Di Maio, prima super-ministro allo Sviluppo e ora ministro degli Esteri; e in fondo anche con Matteo Salvini. Vi sono pochi dubbi che – se per caso dovesse videocollegarsi con “gli amici di Cernobbio”- Biden si convincerebbe facilmente che in Italia c’è bisogno di andare oltre l’esecutivo giallorosso di “Giuseppi” Conte, benedetto un anno fa dall’account twitter di Trump.
È assai verosimile, comunque, che la principale preoccupazione geopolitica degli Usa trumpiani verso l’Italia (la tendenziale cedevolezza verso la pressione cinese) non diminuirà con Biden. Ed è altrettanto sicuro che se c’è un esponente della classe dirigente europea accreditato per interpretare uno sfidante “nuovo corso” politico-finanziario fra gli Usa di Biden e l’Europa di Merkel (ed Emmanuel Macron) ha un nome italiano: Mario Draghi. Se il ruolo (molto prevedibile) dell’ex presidente della Bce in questo scenario evolutivo sarà in Italia o in Europa è uno dei molti pronostici suscitati dalla svolta americana.