Le Convention americane – l’ho già scritto – sono più che altro uno show, la proclamazione della “nomination”, lacrime e sorrisi di circostanza, grandi discorsi e una pioggia finale di palloncini tutti bianchi-rosso-blu. Molto folklore e poca sostanza, come è stato specialmente tra i democratici convenuti a Chicago, salvo l’ufficialità dell’incoronazione di Kamala Harris che fino a un mese fa sarebbe stato un copione surreale. A ben pensarci, infatti, quei delegati osannanti erano stati tutti eletti per votare Biden e nessuno gli aveva proposto alternative alle primarie, ma bisognava trovare un modo ufficiale per pensionare Biden, un presidente che in 40 giorni è passato dall’essere il candidato-unico a un candidato-sepolto.



Bisognava invece festeggiare la sua sostituta in corso d’opera, una ripescata d’emergenza per avere una possibilità di vittoria, risollevare le sorti economiche del partito che si erano incagliate e soprattutto cercare nuove risorse, offrendo garanzie di continuità a chi – tramite la Casa Bianca – paga oggi sperando di incassare domani.



Bisognava rassicurare l’industria degli armamenti, per esempio, ma anche quella delle commesse garantite, dell’incalcolabile stuolo di faccendieri (ufficialmente “lobbisti”) che avevano ed hanno un assoluto bisogno di continuità per non essere sopraffatti dalla nuova ondata dello spoil system se vincessero Trump e i repubblicani. Naturalmente meglio sorvolare sul fatto che la coppia Harris-Walz è la scelta più politicamente a sinistra degli ultimi decenni.

Missione compiuta, comunque. I media si sono schierati in massa (soprattutto all’estero) coprendo di lodi la scelta del gotha democratico. Non una sola voce dissenziente alle candidature (roba da congresso del Partito Comunista Cinese), nessuna voce critica, nessuna protesta. Quelle, semmai, stavano fuori, protestando per Gaza e cento altri questioni, ma sono state tenute bene alla larga dal palacongressi, silenziate dai media e da robusti cordoni di poliziotti.



A ripensarci è comunque davvero strano: non si volevano tafferugli che disturbassero l’immagine e la festa ed infatti di scontri non ce ne sono stati, men che meno un pericoloso avvicinamento al palazzo degli stessi dimostranti. Com’è mai stato possibile allora che il 6 gennaio 2021 un numero molto meno numeroso di variopinti ed annunciati contestatori abbiano potuto violare addirittura il Campidoglio di Washington? Evidentemente anche quella era una volontà politica, come infatti si è dimostrata.

Eppure molte altre cose, oltre ai dimostranti, sono rimaste fuori dalla Convention democratica. Il mondo, per esempio.

Nessuno che abbia chiarito – e tantomeno la Harris – che cosa si vorrà fare nel mondo oltre che chiedere la pace a Gaza (ma non a Kiev). Nessuno ha indicato un programma, una rotta. Nessuno ha citato il Venezuela, l’Afghanistan, l’Iran, la Georgia, Taiwan. “Resteremo più che mai accanto all’Ucraina e insieme alla Nato e ai nostri partner europei” ha detto la Harris. Se questo è ciò che ha in mente la candidata-presidente in merito a questo sanguinoso e costoso conflitto, è davvero una speranza per l’industria degli armamenti che preme per continuare le forniture.

Eppure l’abbandono precipitoso dell’Afghanistan era stata una pagina nera di Biden, così come le incursioni finanziarie “di famiglia” in Ucraina prima del conflitto. Tutte cose dimenticate e sopite, soprattutto da non ricordare agli elettori.

Meglio promettere piuttosto interventi sociali per trilioni di dollari (e pochi si sono chiesti fino a quando si potrà aumentare a dismisura il deficit federale), oltre – ovviamente – alla “chiamata alle armi” degli elettori contro il criminale e pericoloso Trump, genio del male.

Nessuno ha citato il problema immigrazione (ed è forse stato uno sbaglio, perché insieme ai temi economici è questo il vero problema oggi percepito dagli americani), così come la decolonizzazione industriale. Tutto si è così indirizzato – ma questo era ovvio – verso la criminalizzazione di Trump, che se insulta va in prima pagina come diffamatore, ma se è insultato non è un problema per nessuno, anzi, infiamma la platea.

Kamala Harris sarà “La presidente della gioia” e speriamo sia davvero così, perché Obama prese il Nobel per la pace prima ancora di iniziare il suo mandato e poi esordì bombardando la Siria, Biden è intervenuto o fuggito in mezzo mondo mentre Trump (pensateci, ma è proprio così) è stato l’unico a non iniziare nuovi conflitti.

In Italia i media hanno già sposato ed incoronato la Harris, negli Usa è diverso. Il giorno della verità sarà solo il 5 novembre.

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