Dopo la vittoria nel dibattito televisivo con il presidente Biden, l’ex presidente Trump ha ottenuto un’altra, parziale, vittoria, questa volta di fronte alla più alta Corte degli Stati Uniti. Nella complessa vicenda giudiziaria che vede Trump imputato per una serie di atti, fatti ed omissioni legate ad un presunto tentativo di opposizione alla legittima elezione di Biden, compiuto anche dando supporto a quei manifestanti che hanno assaltato il Congresso il 6 gennaio 2021, si è reso necessario definire se e quali atti del presidente allora in carica fossero passibili di azione penale e con quali limiti.



Il tema della punibilità di atti compiuti da un presidente, e più in generale dai membri del governo, nell’esercizio delle proprie funzioni è in realtà un tema che è sempre stato caldo nella storia delle democrazie europee dal dopoguerra e fino ai giorni nostri e che concerne da un lato la necessità di rendere libero da vincoli l’indirizzo politico del potere esecutivo democraticamente eletto, e dall’altro quella di porre limiti ai poteri dei capi di Stato o di governo.



Fino agli anni 70 la necessità di garantire una sorta di immunità, perlomeno funzionale, ai governanti e più in generale ai politici era in realtà un cavallo di battaglia della sinistra, che temeva un utilizzo politico della magistratura da parte degli Stati spesso governati dal centro o dalla destra. Quasi tutte le costituzioni europee (compresa quella italiana), e le interpretazioni date alle stesse da parte delle corti, prevedono qualche sorta di immunità per i capi di Stato e di governo, immunità che sono sempre in qualche modo limitate.

Come la stessa Corte Suprema sottolinea nel preambolo della sentenza, gli Stati Uniti non hanno mai, in 250 anni di storia, dovuto affrontare un caso in cui un presidente fosse accusato in sede penale per atti compiuti durante il suo mandato. Occorre pertanto che la Suprema Corte definisca i limiti entro cui un presidente possa essere perseguito, in particolare per gli atti ufficiali eseguiti durante il suo incarico.



La Corte, in una lunga decisione estesa dal presidente Roberts e sottoscritta dalla maggioranza della Corte di stampo conservatore, ha stabilito come i presidenti godano di una immunità assoluta per quegli atti di “esercizio dei loro poteri costituzionali fondamentali”, mentre per gli altri atti ufficiali l’immunità può essere solo presunta, essendo onere dell’accusa dimostrare che non ci siano “rischi di intrusione dell’azione penale nell’autorità e nelle funzioni del potere esecutivo”. Viceversa, nessuna immunità può essere concessa per atti di natura privata, come invece avevano chiesto i legali di Donald Trump.

La maggioranza della Suprema Corte ha ritenuto che l’immunità presidenziale sia “radicata nella tradizione costituzionale della separazione dei poteri” e sia necessaria a garantire “l’indipendenza e l’effettiva funzionalità del potere esecutivo”. Secondo la Corte, il fatto che un presidente possa esitare dall’agire come ritiene corretto e secondo il suo indirizzo politico nelle sue funzioni presidenziali in ragione del timore di essere accusato, processato o imprigionato mette a rischio l’effettivo funzionamento del governo, ma deve comunque essere contemperato con l’interesse pubblico ad una giusta ed effettiva applicazione della legge a tutti i cittadini.

Molto aspre le parole della minoranza liberal della Corte, che accusa la decisione di ridefinire l’istituzione del presidente facendosi beffa del principio in base al quale nessun uomo è superiore alla legge. Ugualmente critico si è mostrato il presidente Biden, che ha definito questa decisione un “pericoloso precedente” che rischia di non porre limiti a quello che un presidente può fare, in quanto “il potere dell’ufficio non sarà più vincolato dalla legge, nemmeno dalla Corte Suprema degli Stati Uniti”.

La maggioranza della Corte ha comunque re-inviato alla Corte federale territorialmente competente la valutazione su quali atti compiuti dall’ex presidente possano rientrare tra quelli coperti da immunità e quali no. Questo rinvio significa che un’eventuale decisione sulla colpevolezza, anche parziale, del tycoon potrà arrivare solo ben dopo il 6 novembre, e che non potrà influenzare in alcun modo le elezioni presidenziali, togliendo quindi una importante arma alla campagna di Biden.

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