La lingua, sappiamo, viaggia per conto suo. Ma non è sempre lasciata sola nel proseguire il misterioso percorso della sua continua, spontanea metamorfosi. Ci sono delle interferenze calcolate intenzionalmente per confondere, o meglio, per manipolare e condizionare, come nel caso in cui le parole diventano uno strumento di controllo da parte dello Stato.



E così, negli Stati Uniti, accade che non è bastato ripescare la parola misinformation: è stato poi necessario aggiungere disinformation e si è arrivati perfino a creare la parola malinformation. Nel “regno dem” americano la progressione nell’uso di questi termini è parte dell’arsenale delle guerre culturali e politiche che dividono il Paese e stanno mettendo a rischio la fiducia nella democrazia, limitando sempre di più la libertà di espressione. È l’epoca dell’odio che non è solo universale peccato ma che diventa reato: il 17 settembre il governatore della California Gavin Newsom ha proposto una legge contro l’uso della AI, intelligenza artificiale, per immagini o video di satira politica.



Ma torniamo alle nostre parole. La prima, misinformation, che non ci sorprende per le sue chiare radici latine, appare già nell’inglese del Trecento. La seconda, disinformation, è invece molto più interessante perché la troviamo negli anni della Guerra fredda, e  proviene dal russo dezinformatsiya, termine sovietico riferito all’uso propagandistico della lingua per manipolare la verità dei fatti (ciò che oggigiorno viene espresso con il termine fake news). Questa influenza storica è notevole e significativa, e spiega molto dell’uso totalitario della lingua che ritroviamo negli Stati Uniti.



Ma l’ultima mossa di questo “gioco” è l’aggiunta, in anni recenti, direi dal 2000 in avanti, della combinazione di malus con informare: e qui la lotta diventa quasi una crociata contro ogni critica alla machine politica. La citata trilogia linguistica, guarda caso, viene lanciata contro Robert F. Kennedy jr, Elon Musk, J.D. Vance, candidato repubblicano alla vicepresidenza, e chiaramente Trump;  ma anche contro Tulsi Gabbard, la quale è ora nella lista dei sospetti terroristi interni della TSA (Transportation Security Administration), per cui viene perquisita agli aeroporti americani quando viaggia e accompagnata segretamente da addetti di questa agenzia della sicurezza interna (US Department of Homeland Security, DHS) senza alcuna giustificazione o preavviso. Gabbard lo è venuta a sapere da un whistleblower (segnalatore) e ovviamente i media tradizionali (legacy media) non ne hanno parlato.

Gabbard, membro della Camera dei deputati per le Hawaii dal 2013 al 2021, esce dal Partito democratico e diventa independent nel 2022, come succede a RFK e altri. Gabbard non mette a tema le sue radici samoane, europee e indiane, soprattutto non ne fa una questione politica, a differenza di Kamala Harris, che ha astutamente scelto di autodefinirsi “black” sebbene sia di sangue indiano. Un po’ come fece Barack Obama, che cancellò dalla sua immagine pubblica la propria madre bianca (fu lei sola a crescerlo).

E non si è parlato di Gabbard finché non è stato più possibile tacerne, proprio come si è fatto con RFK. Ora Gabbard fa parte del team di Trump, e al pari degli altri citati corre gli stessi rischi dell’ex presidente, obiettivo di due attentati in un brevissimo arco di tempo. Ma qui mi fermo, perché si tratterebbe di aprire un discorso che risale agli anni 60; e sarebbe come dover guardare di nuovo – e forse più profondamente di allora – nei terribili occhi di Medusa.

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