Sondaggi favorevoli, convention democratica unita nel sostenerla: le cose per Kamala Harris finora sono andate a gonfie vele. Ma difficilmente potranno andare meglio: ora dovrà spiegare il suo programma nel dettaglio, confrontarsi con i giornalisti e con Trump in tv, ma soprattutto fare i conti con l’endorsement di Robert F. Kennedy nei confronti del suo avversario repubblicano. L’ex candidato indipendente ha accusato il suo vecchio partito di essere ormai schierato dalla parte dell’establishment e ora i suoi consensi potrebbero essere decisivi negli swing States.



I commentatori più saggi, d’altra parte, spiega Francis X. Rocca, giornalista americano ex corrispondente in Italia per il Wall Street Journal, ritengono che fra Trump e Harris ci sia un testa a testa che verrà deciso all’ultimo voto, con la candidata democratica che dovrà parare i colpi su temi come l’immigrazione e l’economia e quello repubblicano che dovrà fare i conti con temi per lui più ostici, come quello dell’aborto.



L’endorsement di Kennedy per Trump quanto pesa? Secondo i primi sondaggi, avrebbe riportato in parità i due contendenti: basterà al tycoon per vincere?

Kennedy ha detto che vuole sostenere Trump soprattutto negli swing States, quelli che sono in bilico. Potrà fare la differenza perché, anche se porta solo l’1%, potrebbe bastare per cambiare il risultato finale. Aveva sostenitori democratici e repubblicani: i primi sono tornati al loro partito adesso che Biden non è più candidato, mentre i repubblicani sono rimasti e adesso possono fare da ago della bilancia. Se Kennedy fosse rimasto candidato, quegli elettori avrebbero potuto far male al GOP.



Ma il suo è veramente un programma che ha qualcosa in comune con Trump?

Ci sono alcuni temi che sono tipici dei democratici, come è la sua famiglia, ma sulla guerra in Ucraina è più vicino alla posizione di Trump, come anche sui vaccini. Molti sostenitori di Trump sono no vax o almeno scettici. Kennedy rappresenta, comunque, uno scetticismo radicale nei confronti dell’establishment, che ricorda l’atteggiamento di molti sostenitori di Trump.

Dice che se ne è andato dai democratici perché il loro è il partito della guerra, delle Big Pharma, delle Big Tech. È proprio così? Sono il partito dell’establishment?

Non mi sentirei di dire che è il partito della guerra, però già negli anni 90 alcuni democratici ammettevano che i repubblicani erano diventati il partito della classe operaia. I loro politici provengono dalle università meno prestigiose, mentre i democratici sono diventati il partito delle élites. Lo si dice fin dai tempi di Clinton. Nelle università più prestigiose, d’altra parte, non si trovano sostenitori di Trump. Ovviamente ci sono delle eccezioni: Elon Musk e altri miliardari della Silicon Valley, ma sono una minoranza. Kennedy prende di mira l’establishment corrotto e in questo modo forse favorisce i repubblicani, anche se questi ultimi hanno la maggioranza della Camera e comunque fanno parte pure loro dell’establishment.

Ma il nome Kennedy conta comunque?

Non si deve sottovalutare il fatto che il nome della famiglia ha un suo valore, è prestigioso e può influenzare chi non analizza nel dettaglio la situazione politica e si fa suggestionare da un cognome importante. L’endorsement ha un suo peso: nel 2000, nelle elezioni nelle quali ci volle un mese per capire chi avesse vinto tra Bush e Gore, ci fu un terzo candidato, Ralph Nader, senza il quale per alcuni Gore sarebbe diventato presidente.

Per la Harris, intanto, dopo la sbornia di entusiasmo della convention, arriveranno tempi un po’ più difficili: dovrà spiegare finalmente cosa c’è nel suo programma.

Finora ha goduto di una nuova immagine: anche se è stata parte del governo di Biden, molti non la legano all’attuale amministrazione. In parte è fortunata, in parte sono stati furbi a presentarla in un certo modo. Ma tra un paio di settimane ci sarà un dibattito tv, dovrà pronunciarsi sull’immigrazione e sull’economia, che sono cavalli di battaglia di Trump. Spesso i vicepresidenti sono giudicati personaggi di secondo piano e anche lei era vista male prima della candidatura; alla fine si è rivelata più competente di quanto si pensasse e il suo discorso alla convention è stato efficace. Finora per lei è andato tutto bene, ma è difficile che possa andare meglio, soprattutto adesso che Trump, che per qualche settimana sembrava disorientato, ha aggiustato il tiro contro di lei.

Ma su che temi punterà la candidata democratica?

La Harris vorrà parlare di aborto, punto debole di Trump, che in questi giorni ha fatto un tweet nel quale è sembrato indicare una posizione più liberale. Ha detto: “Sotto il mio governo le donne godranno dei diritti riproduttivi”. Non è entrato nel dettaglio, ma questo è un linguaggio più progressista. Anzi, è strano che non abbia provocato reazioni da parte dei conservatori. Trump sta provando a ridurre il danno su certi temi. I democratici, invece, stanno cercando di presentare anche una faccia più ottimista della Harris: Biden aveva puntato soprattutto sul pericolo di Trump.

La Harris ha usato più volte l’espressione “economia delle opportunità”: è perché vuole dare un’immagine più positiva? È comunque sempre uno slogan che va riempito di contenuti.

Bisogna vedere come verranno recepiti dalla gente questi contenuti. Trump cercherà anche di addossarle le responsabilità che ha avuto in questi anni di amministrazione Biden. Credo che il Paese sia diviso: il 48% con Trump, un altro 48% con Harris. Sarà il 4% che rimane a decidere. Harris sta cercando di dare un’immagine positiva, non radicale, da classe media; Trump la accuserà, come ha già fatto, di essere di sinistra. Può darsi che alla fine siano decisivi i temi fondamentali: immigrazione ed economia.

Le guerre in Ucraina e a Gaza quanto pesano? In fondo le temute manifestazioni pro-Pal alla convention non hanno disturbato più di tanto la kermesse democratica. La questione palestinese conta meno di quanto ci si aspettava?

I democratici alla convention non hanno dato spazio ai pro-Pal, invece hanno ospitato la madre di un ostaggio israeliano. C’era molta rabbia da parte della sinistra contro Biden, adesso è come se il cambio di candidato abbia disinnescato questo rischio. Harris in realtà era parte integrante dell’amministrazione Biden, ma avendo avuto un ruolo marginale è come se su di lei certe colpe non ricadessero. Secondo i commentatori più equilibrati, comunque, i due candidati sono molto vicini tra loro e non bisogna fidarsi dell’entusiasmo che ha caratterizzato la convention di Chicago. Tutto può cambiare, sarà una delle campagne più interessanti degli ultimi decenni.

(Paolo Rossetti)

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