A quattro giorni dalle elezioni americane emergono tre indicazioni chiare. Le prime due arrivano dai mercati e dalle quote delle scommesse e la terza dai sondaggi. L’ultimo in ordine di tempo a confermare un’opinione consolidata tra gli operatori è stato il fondatore di Citadel, Ken Griffin; anche secondo l’ad di uno dei maggiori gestori di fondi hedge, l’andamento dei mercati indica che gli investitori abbiano scommesso su una vittoria di Trump; questo è il ritornello che i maggiori organi di informazione finanziaria ripetono da almeno un mese. Lo stesso si può dire delle probabilità implicite nelle quote degli scommettitori che danno al candidato repubblicano una chance di vittoria del 60%. Le ultimissime indicazioni, in realtà, segnalano un recupero delle probabilità di Kamala Harris che comunque, a seconda dei riferimenti presi, non superano il 45%. Sono indicazioni utili a patto di ricordarsi che in diversi casi, come le elezioni presidenziali del 2016, le quote degli scommettitori si sono rivelate completamente sbagliate; nel 2016 Hillary Clinton è stata data per favorita fino alle ultime ore.
Completamente diverso è il quadro che emerge dai sondaggi, inclusi quelli elaborati da società considerate di area repubblicana. Per i sondaggisti le corse negli Stati chiave sono tutte tirate con scarti che non permettono di prendere una visione netta in un senso o nell’altro. La complessità del sistema di voto americano, con regole che variano da Stato a Stato, la variabile dei voti per posta e la polarizzazione politica consegnano a quattro giorni dal voto un quadro incerto in cui, in realtà, tutti gli esiti sono possibili.
Una vittoria di Trump toglierebbe i filtri a due temi che da anni trovano terreno fertile in entrambe le fazioni della politica americana. Anche Kamala Harris sembra aver abbandonato qualsiasi velleità di transizione green in salsa europea e l’Amministrazione Biden esce da quattro anni di mandato aggiornando i massimi dei barili e dei metri cubi di gas estratti in America. Gli Stati Uniti non hanno intenzione di sottoporre i propri cittadini ai costi della transizione e questo è ormai chiaro. Trump toglierebbe però qualsiasi patina green e ha annunciato a più riprese di voler rendere la vita facile ai produttori americani; la rinascita industriale americana, nella sua ottica, affonda le proprie radici in un sistema energetico il più possibile competitivo. Quattro anni di Amministrazione Biden hanno comunque bloccato qualsiasi deriva “europea” in questo senso, a partire, per esempio, dalla tassa sulla CO2 o dal bando delle auto a combustione che oggi negli Stati Uniti apparirebbero lunari.
L’altro filone della politica economica di Trump, su cui ci si dovrebbe attendere un cambio di velocità, è quella dei dazi. Trump promette un approccio muscolare che colpirebbe innanzitutto e maggiormente le imprese e le importazioni europee molto più della Cina che è comunque in grado di negoziare da una posizione più forte. Anche in questo caso si deve ricordare che l’Amministrazione Biden, al picco della crisi energetica europea, approvava un programma di incentivi, l'”Inflation reduction act”, che in Europa veniva percepito come una guerra commerciale mascherata. Lo stesso si può dire della politica fiscale; gli investitori si aspettano più deficit da un’Amministrazione Trump che però prenderebbe il testimone da un Governo che negli ultimi mesi non ha mostrato particolari volontà di “austerity”.
Dal punto di vista europeo, e non è banale, quello che cambia è la velocità con cui alcune politiche verrebbero attuate, ma la direzione sembra segnata a prescindere da chi vinca. I mercati forse sbagliano a quattro giorni dalle elezioni, ma il giorno dopo piazzeranno le proprie scommesse con molti meno margini di errore; le indicazioni che emergeranno, soprattutto per l’Europa, saranno preziose.
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