A poco più di cinque mesi dalle elezioni presidenziali americane i sondaggi iniziano ad avere un certo peso e questi sono favorevoli a Donald Trump. A livello nazionale Trump è avanti di circa 1 punto percentuale con il 41,4%, mentre Joe Biden insegue con il 40,3% (dati elaborati da Fivethirtyeight aggiornati al 18 maggio), l’outsider Kennedy è dato al 9,7%. In un sistema puramente maggioritario, in cui in quasi tutti gli Stati chi vince anche solo di un punto prende tutti i delegati, il dato nazionale vale solo per tastare l’umore della popolazione: le elezioni americane sono, infatti, decise in quegli Stati chiamati “swing”, che sono il bilico, e in cui la vittoria permette al candidato di fare quello step in più rispetto ai seggi “sicuri” che gli garantisce una conformazione sociale della popolazione fortemente polarizzata, con le coste che tendono a sinistra e tutta la parte centrale e sud che tende inequivocabilmente a destra. Negli Stati tradizionalmente decisivi Trump è sempre avanti: di circa 6 punti percentuali in North Carolina, Georgia e Nevada, di quasi 10 punti in Ohio, di 3 punti in Arizona; difficilmente Biden potrà recuperare anche solo uno di questi Stati.



Più contenuto il vantaggio del tycoon in Wisconsin (1,2%) Michigan (0,8%) Pennsylvania (1,8%): le elezioni si giocheranno lì, tre Stati del Midwest, che Biden deve vincere tutti per essere avanti a Trump. Tre Stati con una popolazione ancora in forte maggioranza bianca, tradizionalmente democratici moderati con una certa importanza dei grandi sindacati, ma che negli ultimi anni hanno spesso guardato a destra. Tre Stati tradizionalmente industriali, con un’impresa che però ha sentito fortemente delle grandi delocalizzazioni, della concorrenza degli Stati del sud, delle politiche a tutela dell’ambiente, della concorrenza cinese.



Nel 2016 Trump vinse inaspettatamente in tutti e tre. Sono Stati in cui, come nel resto degli USA, l’inflazione galoppante è uno dei problemi che più attanagliano il ceto medio: dall’elezione di Biden i prezzi sono aumentati in media del 20% e molti consumatori hanno iniziato a tagliare in maniera significativa i consumi: non solo i grandi produttori di generi alimentari, ma anche le catene di fast food hanno pubblicato dati di vendita del primo trimestre 2024 in flessione rispetto ai precedenti. I dati sull’occupazione sono ancora buoni (3,9% di disoccupati) ma le misure prese dalla Federal Reserve per contrastare l’inflazione (i tassi di interesse sono oggi al 5,25%) stanno raffreddando l’economia e il Pil sta frenando, passando da una crescita del 3,4% del quarto trimestre 2023 all’1,6% dei primi tre mesi del 2024. Questi dati generano un malcontento diffuso nella popolazione, che non vede il proprio stile di vita migliorare e recrimina contro il governo che non si muove a tutela del ceto medio. E preoccupano fortemente l’entourage di Biden.



Il presidente in carica si dovrà difendere dagli attacchi del suo principale oppositore nel primo dibattito presidenziale previsto per la sera del 27 giugno in onda sulla CNN. Donald Trump, che nonostante le controversie giudiziarie che lo impegnano diversi giorni alla settimana nei tribunali di New York è apparso in ottima forma in diverse grandi manifestazioni in questi fine settimana, si è detto pronto a sfidare il presidente in grandi dibattiti e in presenza di pubblico. Il team di Biden, timorosa dell’esito di questi dibattiti, ha ad oggi accettato solo due confronti televisivi e senza pubblico.

Donald Trump non ha ancora svelato chi sarà il proprio candidato vicepresidente, che affronterà l’uscente Kamala Harris in un primo dibattito entro fine luglio: è sicuramente una strategia per fare un annuncio ad effetto e valutare le diverse possibilità. Sembrano comunque smentite le voci che davano Nikki Haley o lo stesso Kennedy come possibili candidati.

Le difficoltà di Biden proseguono sul fronte della politica estera e dei suoi riflessi interni. La crisi israelo-palestinese sembra lontana da una soluzione e le proteste che hanno invaso i campus americani nelle scorse settimane (campus ora svuotati causa vacanze di fine semestre) hanno segnato una profonda frattura tra i democratici moderati, che sostengono Israele come alleato americano, e l’ala più progressista, che dal supporto alla causa palestinese è rapidamente passata ad aggressioni contro gli studenti ebrei, a slogan antisraeliani e ad atteggiamenti esplicitamente antiamericani e in generale ostili all’Occidente. Questa frattura si ripropone anche nei boards delle grandi università della West e della East Coast, dove i grandi donatori e finanziatori hanno costretto le direzioni accademiche, spesso in mano a rettori eletti più per le politiche di diversità ed inclusione che per le competenze scientifiche e l’esperienza didattica, a significativi retro-front, finalizzati a rispettare pluralismo e a garantire a tutti gli studenti il diritto all’istruzione.

L’altra spina del fianco per Biden è la questione ucraina: al pubblico americano medio questa sembra una questione lontana e poco impattante e fino a febbraio 2022 l’Ucraina era nota negli USA principalmente per gli affari di Hunter Biden, figlio del presidente, accusato di aver utilizzato le influenze del padre, quando era vicepresidente di Obama, per ottenere incarichi e guadagni milionari in alcune aziende chimiche ucraine. Dopo mesi di stallo gli USA hanno approvato un piano di aiuti all’Ucraina di circa 60 miliardi, di cui 23 in rifornimenti militari e 14 in assistenza militare. Questa decisione, approvata dal Senato grazie al voto decisivo di un gruppo di senatori repubblicani che ha ottenuto in cambio ulteriori finanziamenti per spese militari in favore di Taiwan e Israele, e non legata ad una road map di colloqui di pace o comunque ad una exit strategy dal conflitto, è fortemente criticata dalla base repubblicana e trova lo scetticismo anche di parte della sinistra pacifista. Difficilmente questa iniezione di armi e di mezzi potrà ribaltare la situazione delle forze ucraine, attualmente in difficoltà nell’area di Kherson, consentendo loro di riconquistare i territori perduti. L’impressione è che lo scopo non sia quello di lavorare per far terminare la guerra, ma di proseguire lo status quo, fino ad almeno dopo le elezioni.

Diversa è la posizione di Trump che, pur non essendo certamente un pacifista, critica in pubblico l’enorme spesa a favore dell’Ucraina e in privato ragiona su come convincere Zelensky a scendere a patti con il nemico, cedendo parte dei territori già conquistati dalle truppe russe, disimpegnando così gli Stati Uniti da questo settore.

 

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