Caro direttore,
l’editoriale pubblicato martedì 3 settembre su questo giornale a firma Fernando de Haro ha avuto il pregio di porre l’attenzione sulla conversione al cattolicesimo di J.D. Vance, il candidato del partito repubblicano alla vicepresidenza per le prossime presidenziali USA. Le citazioni dei brani provengono in massima parte dal saggio pubblicato ad aprile 2020 da Vance su una rivista cattolica online in cui lui racconta in prima persona la storia della sua conversione. Mi sembra tuttavia che De Haro non colga la bellezza e la verità della conversione di Vance, come di tante altre conversioni, che è fondata sulla ricerca continua di una fede ragionevole, che possa aver a che fare con gli aspetti concreti della realtà e allo stesso tempo essere sostegno per la sua persona, come marito, padre, imprenditore e politico.
Cresciuto da una nonna, cristiana evangelica ma non particolarmente praticante, in una famiglia povera e divisa, si arruola nei marines e parte per l’Iraq da credente non appartenente ad una specifica congregazione, carico degli ideali di democrazia e libertà da portare nel mondo, ma ritorna quattro anni dopo, disilluso, scettico e sostanzialmente ateo. Entrato nel college e poi in università (alla Law School di Yale), si trova circondato da un’élite culturale prevalentemente a-religiosa, con una forte connotazione meritocratica, dove matura l’idea che la fede sia una cosa per semplicioni. In questo contesto, anche a seguito dell’incontro con la donna che poi diventerà sua moglie, inizia a cogliere un profondo senso di inadeguatezza, si acuisce in lui il desiderio di essere una persona migliore e la convinzione che per essere un uomo migliore non per forza si debba sgomitare per un posto nei migliori studi legali degli States, come invece viene spinto a fare dal contesto che vive.
Durante un corso di teoria politica avviene il suo incontro con Sant’Agostino: la lettura di un brano del De Civitate Dei, in cui il santo commenta l’inizio del libro della Genesi, è quello che lui stesso definisce “la prima crepa nella sua armatura”.
Negli anni successivi alla laurea, mentre lavora sotto un giudice federale prima ed in uno studio legale poi, si concentra sulla scrittura del suo bestseller, Hillbilly Elegy, che letteralmente significa “l’elegia degli hillbilly”, quegli abitanti delle povere regioni degli Appalachi giunti negli anni 60 nelle grandi città industriali per cercar lavoro e stabilità. Durante quegli anni diviene cosciente di molti dei problemi che affliggono le sue comunità del Midwest, dall’abbandono scolastico all’uso delle droghe passando per la violenza dilagante, dal disfacimento del tessuto famigliare alla perdita di posti di lavoro legata alla grande crisi industriale. Di fronte a questo non sopporta la posizione della sinistra, che teorizza le origini delle difficoltà e mostra verso persone come i suoi familiari una compassione quasi come “fossero animali chiusi nello zoo, senza speranza”. Si trova così alla ricerca affannosa di una visione del mondo che possa da una parte giudicare gli errori e gli sbagli che vede, anche nella propria comunità, ma che dall’altra possa aiutarlo a guardare le persone per il valore che hanno.
Lui stesso racconta di accorgersi pian piano che l’unica visione ragionevole è quella cattolica, quella di una fede “centrata su Cristo, che richiede la perfezione ma che ci ama incondizionatamente e che ci perdona facilmente”, di una cristianità che ha a cuore i poveri e gli emarginati, ma che non li considera innanzitutto vittime, di una cristianità che persegue la virtù, ma che comprende come questa possa essere vissuta solo nella comunità. È in questo percorso quindi che Vance, nel 2019, arriva a chiedere di essere accolto nella Chiesa cattolica, scegliendo come santo patrono proprio sant’Agostino.
L’incontro con il cristianesimo per Vance è stato quindi probabilmente diverso da come De Haro immagina che debba essere un incontro con il cristianesimo, tuttavia ridurre il percorso fatto da quest’uomo ad “interpretazione culturale della fede … espressione di quello stesso secolarismo che pretende di combattere” è non solo irrispettoso nei confronti della sua persona (come lo sarebbe verso la conversione di chiunque altro, al cattolicesimo o ad altre confessioni), ma riduttivo nei confronti della bellezza dell’incontro cristiano, che se è veramente per tutti può avvenire in modalità e con forme ben oltre la nostra immaginazione.
Da quanto Vance racconta, il cristianesimo non è per lui un “imperativo etico”, ma l’unico modo ragionevole di guardare la realtà, di affrontare la crisi sociale particolarmente grave nella sua terra, così come di star di fronte all’educazione dei figli, al rapporto con la moglie, alle fatiche del lavoro, di identificarsi con i concittadini che sono in difficoltà e di provar compassione per loro. Ed è per questo quindi che la fede cattolica può impattare anche sul modo di fare politica.
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