La Convention democratica di Chicago come tappa della campagna mediatica per trasformare una vicepresidente che non godeva dei favori del suo stesso partito in un’icona della battaglia per sconfiggere Trump. I programmi hanno un ruolo marginale nella corsa per la presidenza americana; pesa di più la contrapposizione fra i due candidati. Anche per questo, osserva dalla California Marcello Foa, giornalista, docente universitario, già presidente Rai, conduttore di “Giù la maschera” su Rai Radio1, potrebbero assumere una grande importanza i dibattiti televisivi. La partita fra Donald Trump e Kamala Harris, comunque, è apertissima. I sondaggi rischiano di trarre in inganno: nel 2016 Hillary Clinton doveva stravincere e invece dovette cedere il passo allo stesso Trump.



Che peso può avere la Convention democratica di Chicago in questa fase della campagna elettorale?

Stiamo assistendo a una grandissima operazione mediatica: da quando è stata scelta Kamala Harris, è in corso una mega operazione per trasformare una vicepresidente che prima era considerata non adatta, innanzitutto dal partito democratico, in un’icona, una statista, la prima donna presidente degli USA. I democratici stanno cercando di ribaltarle totalmente l’immagine attraverso i media e i sondaggi, che in questo momento non riflettono l’orientamento dell’elettorato. Un’operazione molto interessante, un caso che segnerà una nuova tappa nella storia della comunicazione politica a livello mondiale.



Non a caso si punta sugli appelli contro Trump, sui discorsi enfatici, sull’accusa al candidato repubblicano di essere un criminale, piuttosto che sui programmi?

È tipico delle campagne elettorali americane da molti anni, sia da una parte che dall’altra. La gente vota per identificazione nel leader e il candidato identifica sé stesso contrapponendosi all’avversario. I democratici dicono che bisogna fermare il nuovo tiranno, gli altri che occorre far tornare al potere chi si è visto privato dei propri diritti al termine di un’elezione considerata rubata. Trump aveva gioco facile a dimostrare che Biden non era adatto, anche per ragioni fisiche, a guidare il Paese. Con la Harris dovrà cambiare linea. Credo che saranno molto importanti i dibattiti televisivi tra i due.



In tutto questo, la Convention sposta qualcosa?

Dopo la prima giornata, la mia impressione è che al Paese non interessi molto. Sui social, Biden e la Convention non sono fra i trending topic. E io ora mi trovo in uno stato democratico. Nei locali, le televisioni sono sintonizzate più sui canali sportivi che su quelli politici. L’elettorato moderato, quello che decide da sempre le elezioni, per ora non si scalda.

C’è un problema di democrazia interna nel partito democratico? In fondo, le primarie hanno indicato Biden come candidato e poi c’è stato un cambio in corsa che è stato deciso dai vertici. L’elettorato dem non si sente scavalcato?

Dal punto di vista legale, secondo Trump alcune cose non sono corrette, anche se non credo che annulleranno la candidatura Harris per questo. L’opinione pubblica non politicizzata si chiede perché Biden non è stato sostituito prima. Non è la prima volta, comunque, che il comitato centrale del partito compie scelte di questo genere. Biden è stato costretto ad andarsene, ma anche in passato, quando la contesa interna era fra Bernie Sanders e Hillary Clinton, c’erano state evidenti anomalie. I democratici non hanno fatto una bella figura, ma non sarà un elemento decisivo della campagna elettorale, perché hanno puntato tutto sulla necessità di fermare Trump, altrimenti l’America è finita. La stessa cosa che dice il candidato repubblicano a parti invertite.

Quello che emerge è un Paese sempre più diviso?

In passato c’era una contrapposizione molto forte, ma alla fine prevaleva il solito schema: “a torto o a ragione questo è il mio Paese”. Oggi invece gli USA sono divisi in due blocchi con una delegittimazione reciproca: un aspetto che li indebolisce molto sia come democrazia, sia come potenza di riferimento. Che vinca uno o l’altro, né Trump né Harris mi sembrano candidati in grado di ricomporre l’unità nazionale.

Cosa deciderà la contesa, allora?

I programmi conteranno in maniera marginale, sarà più uno scontro di personalità e di identità politica. Il partito democratico, però, deve fare i conti con un altro problema.

Quale? Il dissenso sulla politica dell’amministrazione USA nella guerra a Gaza?

A fare più notizia in questi giorni sono le proteste degli studenti, che sono di sinistra ma non apprezzano il fatto che Biden e i democratici sostengano Israele. Questo è un fattore critico, non perché andranno a votare Trump, ma perché questo atteggiamento potrebbe indurre una parte importante dell’opinione pubblica di sinistra a non andare alle urne.

Cosa conterà?

La partecipazione elettorale media negli USA oscilla tra il 50 e il 55%, è bassa. Il 20% dell’elettorato è repubblicano, il 20% è democratico. E votano in maniera regolare. Le elezioni vengono decise da una minoranza del 10-15%. Vince chi riesce negli stati chiave a mobilitare l’elettorato centrista moderato che di solito non vota o non è schierato. Per questo Bush si era rivolto agli evangelici, perché sapeva che negli stati chiave avevano un peso. Mentre Obama vinceva perché era un candidato che aveva un suo carisma nei comizi e la gente per questo pensava che fosse una brava persona. Oggi invece c’è una polarizzazione estrema: basta guardare anche i candidati vicepresidente, uno è di estrema sinistra, l’altro di estrema destra. La grande incognita, tuttavia, è come riusciranno a convincere l’elettorato moderato non schierato.

Quanto devono essere presi sul serio i sondaggi, oggi tutti favorevoli alla Harris?

Io non ci credo; ci sono alcune società autorevoli e credibili, ma altre no. Nello scontro Clinton-Trump, i sondaggi davano la prima stravincente e poi sappiamo tutti com’è finita.

(Paolo Rossetti)

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