Trump e la Harris, secondo i sondaggi, sarebbero alla pari, in equilibrio perfetto. Tuttavia, per conquistare i voti dell’America rurale, quella degli Stati decisivi, la strategia del candidato repubblicano sembra più convincente, capace di creare quell’empatia che spesso fa la differenza per l’elettore. Sul voto, però, osserva Marcello Foa, giornalista, docente universitario, già presidente Rai e conduttore di “Giù la maschera” su Rai Radio1, rimane l’incognita di un sistema elettorale non proprio affidabile. Ora, al di là dei contenuti, l’obiettivo è accorciare le distanze con la gente, creando un processo di identificazione con il candidato che porti a pensare: “È uno di noi”.
Dai sondaggi, Harris e Trump sono sempre più vicini in quasi tutti gli Stati in bilico. Sono veramente alla pari?
I sondaggi, specialmente negli USA, non sono sempre affidabili. La differenza la fa un calcolo matematico: vota circa il 60% degli americani, di cui il 25% è di destra e altrettanti di sinistra, quindi il 50% sa già per chi votare. Le elezioni le decide il 10% che manca: la vera sfida è conquistare quel 6-7% che sposta gli equilibri. Il pubblico americano è meno sofisticato di quanto si pensi, soprattutto negli Stati centrali, nelle aree rurali e post-industriali, dove la cultura media non è elevatissima.
Cosa succede in quelle aree?
Votano identificandosi con il candidato, scegliendo chi credono possa rappresentarli meglio. In questo momento, direi che Trump ha più chance della Harris. La candidata democratica ha un profilo più alto, è stata procuratrice, ma non parla alla pancia di quell’elettorato. Trump, pur essendo un personaggio discutibile da certi punti di vista, sa usare argomenti che permettono a un americano della cultura degli Stati chiave di identificarsi con lui. Per questo, nonostante l’incertezza dei sondaggi, Trump è favorito.
Ci sono altri segnali che favoriscono il tycoon?
La Harris è il candidato dell’establishment e del deep state, ma i democratici sono inquieti. Vi sono segnali che non li rassicurano: Jeff Bezos, come editore, ha deciso che il Washington Post non si schieri e ha criticato i giornalisti, affermando che il pubblico non si fida più di loro. Anche Amazon, centrale nell’economia digitale e di proprietà di Bezos, preferisce non schierarsi. Se fosse convinta della vittoria della Harris, lo farebbe. Inoltre, il Financial Times ha pubblicato un articolo in cui si chiede se l’inflazione farà perdere le elezioni alla Harris. Molti osservatori democratici esprimono preoccupazione: si percepisce che il risultato non è scontato e che Trump potrebbe avere più chance della Harris.
Rimane però l’incognita del sistema di voto americano, che alcuni considerano poco affidabile. Cosa può succedere?
Il sistema americano, non uniforme in tutti gli Stati, non garantisce sempre la correttezza del voto: è possibile che una persona voti più volte. In certi casi ci si può iscrivere alle liste elettorali con false identità, poiché in prossimità del voto non c’è tempo di verificare. Gli Stati tendono a concedere le tessere elettorali a chi le richiede, e non è richiesta la carta d’identità. Basta cambiare seggio e, sfruttando liste elettorali non sempre aggiornate, si può votare più volte in più seggi. Voglio credere che il voto sia regolare, ma gli osservatori dicono che le irregolarità ci sono sempre, sperando che non siano tali da inficiare il risultato. A volte, a distanza di mesi, si scoprono anomalie, ma intanto ciò che conta è lo spoglio.
È un problema non da poco se il divario tra i candidati sarà così stretto come sembra.
Purtroppo le regole le stabiliscono i singoli Stati. Anche le lunghe code ai seggi non sono sempre un segnale di partecipazione: il numero di cabine elettorali viene deciso dal singolo comune o dalla contea, in base ai fondi a disposizione. Alcuni centri, con poche risorse, ne installano il minimo necessario: tre o quattro invece che venti o trenta. Capita quindi che qualcuno, dopo più di un’ora di coda, rinunci a votare.
C’è anche il voto postale, per la cui validità sono stati coinvolti i giudici, chiamati a stabilire regole per dichiararlo legittimo. Anche qui mancano garanzie?
Il paradosso dello Stato federale rende difficile un’armonizzazione. Quando i candidati erano Bush e Gore, l’elezione fu vinta dal primo dopo uno spoglio estenuante per verificare la punzonatura delle schede in Florida. Alcuni adottano il voto elettronico, oggetto di contestazioni, mentre altri usano la scheda cartacea, che comporta uno spoglio più lento. In Florida si usava ancora la punzonatura, che richiedeva di bucare la scheda per esprimere la preferenza.
Insomma, chiunque perda, con queste condizioni, potrà facilmente sostenere che ci siano state irregolarità?
Posso metterlo nero su bianco: se vince Trump, la Harris dirà che ci sono stati brogli, e viceversa.
C’è il rischio di una nuova Capitol Hill?
In teoria sì, qualcuno lo teme. Fino a Obama, l’unità nazionale non veniva messa in discussione, indipendentemente dal vincitore. Poi ha vinto Trump, i cui toni sono stati polemici, e i democratici hanno reagito con veemenza: oggi il Paese è diviso, con una profonda sfiducia reciproca. Si è creato un clima di ostilità anche all’interno delle istituzioni, un problema strutturale che persisterà finché gli Stati Uniti non troveranno figure capaci di ricostruire l’unità nazionale. In questo contesto, c’è il rischio di disordini. Ovviamente spero di no.
La campagna elettorale è stata segnata recentemente da due episodi: un comico repubblicano ha preso di mira i portoricani e Trump si è vestito da netturbino per rispondere a Biden, che aveva definito “spazzatura” i fan dell’avversario. Possono influire sul voto?
L’episodio del comico probabilmente non avrà grande impatto: è stata una battuta poi ritrattata. Nel secondo caso, però, è diverso: nelle campagne elettorali italiane più accese ricordiamo Berlusconi da Santoro, in un duello con Travaglio, un momento epico che influenzò le elezioni. Nell’era dei social media, Trump ha avuto due intuizioni popolari ma geniali: ha lavorato per qualche minuto da McDonald’s e si è vestito da netturbino con i suoi principali collaboratori, rispondendo a Biden. Sono immagini che colpiscono il pubblico americano medio e potrebbero conquistare l’elettore indeciso. L’obiettivo di Trump è evidente: suscitare empatia, far pensare alla gente: “In fondo, è uno dei nostri”.
I contenuti dei programmi sono secondari, ciò che conta è ciò che gli elettori percepiscono?
Per capire chi vincerà bisognerebbe ripetere un sondaggio fatto ai tempi di Bush e Kerry, chiedendo alla gente con chi avrebbe preferito bere una birra. Il 70% scelse Bush.
(Paolo Rossetti)
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