La campagna negli Stati Uniti per le prossime elezioni presidenziali sta assumendo aspetti sempre più surreali, per non dire grotteschi. Una situazione particolarmente preoccupante per uno Stato che rimane determinante sullo scenario geopolitico, anche se non più in posizione sostanzialmente egemone, dato il sorgere di nuove potenze globali, come la Cina. Un mondo sempre più multipolare sta progressivamente limitando il potere degli Stati Uniti come “guida mondiale”, ruolo previsto dall’ipotesi di un “Secolo Americano” conseguente al crollo dell’Unione Sovietica. Questo nuovo scenario mette in discussione anche il modello occidentale di democrazia e quanto sta avvenendo negli Stati Uniti in vista delle elezioni di novembre sembra confermarlo.
Da un lato troviamo lo sfidante Donald Trump, già Presidente nella precedente legislatura, sotto processo e in parte condannato per diversi reati. Trump può rimanere in corsa grazie a una discussa sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti sull’estensione dell’immunità presidenziale, sulla quale una decisione definitiva verrà solo dopo le elezioni di novembre. Trump è anche accusato dai suoi avversari di aver appoggiato, se non addirittura fomentato, l’assalto al Congresso nel gennaio del 2021 per contestare l’elezione di Joe Biden.
Anche Biden ha qualche problema sul versante giudiziario, dato che il figlio Hunter è stato condannato il mese scorso per aver falsamente dichiarato, in occasione dell’acquisto di un’arma, di non essere un consumatore di droga. Hunter aveva già messo in difficoltà il padre con certi suoi affari in Ucraina nei quali, secondo i Repubblicani, Joe Biden sarebbe intervenuto approfittando della sua carica di vicepresidente.
L’attenzione degli osservatori e degli elettori è ora concentrata sullo stato di salute, soprattutto mentale, di Biden e su come ciò possa influire sulla sua elezione, fino a mettere in discussione la sua candidatura. Una vicenda che pone diverse domande, a partire dal fatto che la situazione di Biden non è certamente venuta alla luce nel recente confronto televisivo con Trump. Perché finora all’interno del partito nessuno si è posto apertamente il problema? La rosa di possibili candidati alternativi non sembra all’altezza della battaglia contro Trump, né la vicepresidente Kamala Harris sembra offrire una netta opportunità di battere il repubblicano.
In effetti, le domande non riguardano solo le probabilità di vittoria alle prossime elezioni, bensì la capacità di Biden di gestire gli Stati Uniti nei prossimi quattro anni, con una vicepresidenza non particolarmente forte. Ed ecco un’altra domanda: chi in questi ultimi tempi ha realmente gestito lo Stato, dietro la facciata del Presidente? Kamala Harris, o piuttosto quelli che si suole definire “poteri forti”, il cosiddetto Deep State e i potentati finanziari? Sotto questo profilo, Joe Biden poteva apparire come un “usato sicuro” contro l’imprevedibile e inaffidabile Donald Trump. Ora, parrebbe rimasto solo l’“usato”, mentre il “sicuro” se ne è andato, e occorre trovare rapidamente un’alternativa.
A ben guardare, qualcosa è cambiato nel confronto tra Partito democratico e Partito repubblicano, definito il primo progressista, o di sinistra, e il secondo conservatore, o di destra. Attualmente appare in atto uno scontro, forse ancora iniziale, tra due concezioni dello Stato, in cui Donald Trump, più che il Partito, rappresenta una parte di America che non si riconosce più, almeno completamente, nell’attuale ordinamento. Ciò che sta avvenendo in diversi Stati europei e che viene rapidamente declassato a rigurgiti populisti o neofascisti. Infatti, anche Trump è accusato di voler sovvertire l’attuale ordine statuale.
Sotto questo profilo Biden rappresentava una continuità dell’ordine costituito e una candidatura alternativa deve essere non solo potenzialmente più forte di Trump, ma anche altamente rappresentativa dell’attuale establishment e in continuità con le presidenze precedenti quella di Trump. Biden lo era e lo sarebbe ancora, senza i problemi personali già citati.
A questo punto sta emergendo un nome che rispetta tutti i necessari criteri: Michelle Obama. Qualche commentatore sottolinea la sua inesperienza diretta di governo, ma si può far notare che, a suo tempo, come First lady non si è limitata al ruolo di “dama accompagnatrice” di suo marito Barack Obama. Inoltre, il Presidente non è un uomo solo al comando e può contare su un apparato non di certo marginale nell’effettivo governo del Paese. Sondaggi recenti danno la sua eventuale candidatura in vantaggio su Trump, a differenza di quanto accade con Biden.
E, comunque, Michelle può anche contare sulla collaborazione del marito Barack. Insomma, un ritrovo tra vecchi amici: il già presidente Obama con il suo ex vicepresidente Biden, diventato a sua volta Presidente, e la moglie di Obama nuova Presidente. Più continuità di così!
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