Michelle Obama candidata presidente? I rumors parlano anche di lei tra le possibili alternative a Joe Biden, alle prese con i problemi dovuti all’età e penalizzato dai sondaggi a favore di Trump. Per ora, comunque, si tratta solo di una suggestione rilanciata dal New York Post, giornale conservatore della famiglia Murdoch. Una voce, insomma, alla quale nessuno dà credito negli Stati Uniti. Non che il tema della sostituzione in corsa dell’attuale presidente non resti sul tavolo, ma, di certo, almeno per il momento, all’orizzonte non ci sono altri nomi oltre a quello del democratico che ora è inquilino della Casa Bianca.



Tra i dem, spiega Massimo Gaggi, corrispondente dagli USA per il Corriere della Sera, circolano nomi alternativi, dal governatore della California Gavin Newsom a quella del Michigan Gretchen Whitmer o al pari grado del Kentucky Andy Beshear, ai quali si aggiunge il ministro del Commercio Gina Raimondo; ma, al netto delle perplessità sulla candidatura di Biden, si tratta di politici emergenti che per ora restano sullo sfondo. La sfida più probabile al voto di novembre resta ancora quella fra Trump e il presidente in carica.



Michelle Obama può davvero diventare il nome nuovo da opporre a Trump per contendergli la Casa Bianca nelle prossime presidenziali?

In America non ne parla nessuno. Non si può escludere totalmente, ma fino a oggi si tratta di una eventualità altamente improbabile. Michelle Obama ha detto che esclude completamente di volersi candidare; fare il presidente degli Stati Uniti non le interessa. Sostiene che ha già passato otto anni di inferno alla Casa Bianca e che quindi non vuole tornarci. Certo, potrebbero essere parole messe lì in questo momento, rimangiate poi davanti all’emergenza di un Paese che rischia la dittatura.



Da dove è nata questa voce?

Ha sempre girato come una suggestione: il personaggio è popolare, molto più del marito, nei sondaggi come nei libri venduti. Dovendo fare un ragionamento a bocce ferme, invece, diventa più difficile considerare la sua candidatura. Mettiamo anche che Michelle stia fingendo e che alla fine sia disposta a candidarsi. Intanto dovrebbe convincere Biden a farsi da parte: le primarie ormai le sta facendo, ha appena spostato i due più importanti personaggi della Casa Bianca sulla campagna elettorale. Si arriverà, quindi, alla convention estiva. L’ipotesi è che in quella occasione, rendendosi conto che la sua salute è peggiorata o che i sondaggi lo danno per sicuro sconfitto, Biden possa ritirarsi all’ultimo momento, spiegando di non averlo potuto fare prima perché ha dovuto affrontare un anno con due guerre e non poteva essere un presidente dimezzato davanti a Putin e a Xi Jinping.

Cosa succederebbe allora?

In base alle regole della convention, tutto il lavoro delle primarie verrebbe azzerato e a quel punto sarebbero i boss del partito, i delegati riuniti, a scegliere indipendentemente dal volere popolare. Diventerebbe una questione interna ai maggiorenti democratici. A Davos gli imprenditori americani accreditavano un ticket che mettesse insieme Newsom e Gina Raimondo, che piace molto perché capisce l’economia, avendo dovuto gestire il rapporto con la Silicon Valley, e che ha un’esperienza politica come governatrice del Rhode Island.

Ci sono anche altre alternative possibili?

Si parla della governatrice del Michigan Whitmer, di quello del Kentucky Beshear, anche se è molto giovane e ancora poco noto, pur avendo vinto due volte le elezioni in uno Stato in cui Trump si è affermato alle presidenziali con 28 punti percentuali di vantaggio sul suo avversario. Un moderato che può piacere ma che andrebbe sperimentato.

Perché, invece, Michelle dovrebbe essere presa in considerazione?

È conosciuta da tutti e amata da molti. Al di là della sua volontà personale, però, non ama i giochi  della politica: se dovesse diventare presidente si troverebbe a dover battagliare con la Camera e con il Senato che non le passano i provvedimenti, facendo mediazioni continue. Non so quanto sia nelle sue corde. Credo che in campagna elettorale Trump, che è un demolitore professionista degli avversari, sbeffeggerebbe i democratici come il partito che va avanti per dinastie. Poi c’è anche il fattore razziale: Obama è stato la dimostrazione della capacità di saper inglobare le minoranze, ma per mezzo Paese è stato un trauma. Se si candida, Michelle Obama deve vincere non a New York o in California, lì non c’è problema, ma in Georgia, in Arizona, in Michigan, là dove c’è un elettorato conservatore e diffidente nei confronti delle minoranze etniche.

Al momento, insomma, è una candidatura che non c’è?

Dobbiamo rimanere ai fatti e i fatti ora ci dicono che Biden è determinato al 110% a rimanere in corsa.

Il New York Post, comunque, ha parlato della candidatura di Michelle. Che peso ha questa pubblicazione?

È uscito un articolo come opinione di una commentatrice, in un linguaggio molto popolaresco, in cui l’ipotesi viene buttata lì. È un giornale di Murdoch, della destra, può anche essere una provocazione per creare scompiglio. La notizia non è stata ripresa da altri giornali della destra come il Wall Street Journal o da giornali mainstream come il Washington Post o New York Times. Poi tutto è possibile. Resta una soluzione difficile da gestire, avrebbe più senso far crescere dei leader alternativi, come alcuni governatori.

I tre governatori democratici citati come outsider sono tutti sullo stesso piano o c’è qualche emergente che si è messo più in vista degli altri?

Newsom, come governatore della California e avendo fatto un confronto pubblico con DeSantis in tv, è l’unico che comincia ad avere un’immagine anche in televisione nazionale. È anche uno vulnerabile, ha degli scheletri nell’armadio che in caso di candidatura i repubblicani tirerebbero fuori: ha avuto problemi di droga da giovane e una storia sentimentale con la moglie del suo braccio destro quando era sindaco di San Francisco. Sono cose che se le avesse fatte Trump non avrebbero nessun peso nel suo elettorato, ma che tra i progressisti contano di più.

Alla sostituzione di Biden, però, i democratici al massimo ci penserebbero alla convention di agosto?

Forse anche subito prima. Bisogna entrare nella testa di Biden. Per ora sembra convinto a candidarsi. Si sa che Barack Obama è andato da lui per indurlo a darsi una mossa e a recuperare consensi; che David Axelrod, stratega elettorale democratico, teme una sconfitta. Ma restare dipende dalla sua volontà e da quella delle persone che gli stanno intorno. Biden ritiene che la gente stia vivendo la partita elettorale come se fosse ancora abbastanza lontana, ma quando nell’imminenza del voto si renderà conto che Trump è candidato, che continua a usare un linguaggio estremo e a minacciare un modello di governo più autoritario di quello che ha avuto nel primo mandato, deciderà di votare per l’attuale presidente. L’andamento delle prime due primarie repubblicane ha fatto piacere alla Casa Bianca perché ha chiarito chi è l’avversario. E Biden pensa di poterlo battere.

(Paolo Rossetti)

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