Ogni pensionato dell’università di Columbia a New York riceve regolarmente, anche se risiede all’estero, una breve comunicazione di poche righe dalla polizia universitaria quando si verifica un crimine nella zona del campus; un’apprezzabile forma di contatto con la comunità, e uno dei tanti aspetti della democraticità americana. Ma una volta, in queste comunicazioni di polizia, si specificavano il sesso e la razza del “sospetto” e della vittima. Poi si è smesso di fare riferimento alla razza, perché sarebbe stato politicamente scorretto (il campus di Columbia e i suoi dintorni sono situati al centro di una comunità prevalentemente nera e ispanica).



In seguito, si è cessato di fare riferimento anche al sesso e addirittura all’identità personale: per cui il sospetto non è più definito come “maschio”, bensì come qualcuno “che si presenta come maschio”, per evitare anche l’ombra dell’idea che si pretenda di tracciare una distinzione netta fra i sessi. Quanto all’identità della vittima del furto o rapina: anche quando, come quasi sempre, si tratta di una persona sola, si adopera il pronome plurale “loro” per evitare l’uso dei pronomi che ormai sembrano divenuti quasi imbarazzanti: “lei” e “lui”.



Conseguenza: il comune cittadino avverte un senso di leggera confusione leggendo messaggi come questi, che pure interessano direttamente la percezione del suo contesto sociale immediato. Peraltro, negli ultimi tempi queste notificazioni si sono diradate: segno che la piccola criminalità della zona sta diminuendo? Pare improbabile. O è forse che gli autori di questi messaggi hanno cominciato ad avvertire un certo senso del ridicolo e stanno pensando di cambiare stile? Sarebbe auspicabile, ma è tutt’altro che sicuro.

Per esempio: sull’onda dei tumulti razziali di alcuni anni or sono, si è cominciata a diffondere fra tutti i giornalisti e saggisti americani una regola tanto più ferrea quanto più sottaciuta: cioè, con un ulteriore strappo alla grammatica, si è cominciato a scrivere “Neri” con l’iniziale maiuscola, lasciando i “bianchi” con l’iniziale minuscola. Ma poi vari giornalisti, evidentemente ancora rispettosi del vecchio fair play, hanno cominciato a scrivere anche “Bianchi” con la maiuscola: con il risultato, però, di distruggere l’iniziale intento politico, e l’ulteriore risultato di sottolineare il radicalismo dei duri e puri che continuano a distinguere fra la maiuscola che designa una delle due razze e la minuscola che indica l’altra (razzismo dell’anti-razzismo).



Questi non sono aneddoti più o meno grotteschi e divertenti, come si tende invece a leggerli in Italia e non solo, riducendo cioè il termine ormai quasi osceno, “politicamente corretto”, a oggetto di quella debole ironia che lo trasforma essenzialmente in un’apologia. No: questi sono fenomeni ampi, e sintomi gravi. Fenomeni ampi, perché si diffondono come sempre con grande rapidità in Italia e in altre province dell’impero. Ma soprattutto sono sintomi gravi; perché mostrano come sia grande la posta politica attualmente in gioco, ossia la vera sfida di queste elezioni presidenziali.

Gli “aneddoti” di cui sopra, infatti, hanno una base comune: l’indebolimento di tante certezze sui limiti e la natura del corpo umano, in una sorta di nebulosità generale che insinua un sottile senso di disagio. Se la strategia fondamentale di ogni lotta elettorale in ogni Paese è quella di stimolare forme di ansia e paura (secondo il principio, più volte enunciato dai veri pensatori politici ma che merita di essere ripetuto spesso, che il primo nemico di ogni governo è in fondo la propria imprevedibile popolazione), è proprio questa incertezza sui confini corporei – i più fisici e immediati – e sulle loro estensioni sociali, il vero problema di queste elezioni: problema di cui pochi parlano.

È questa la corrente tumultuosa che scorre in silenzio sotto la superficie e unisce fenomeni diversi: dalla preoccupazione per la sicurezza domestica a quella per il disastro ai confini meridionali degli Stati Uniti; dal disagio per l’aggressività della correttezza politico-sessuale ai timori per l’invasione “mascolina” degli sport femminili, dal senso di timore per il proliferare dei cambiamenti genetici alla paura della competizione fra il cervello umano e l’intelligenza artificiale. In tutti questi casi è in gioco, appunto, ciò che ogni essere umano vuole più gelosamente custodire: la separatezza e integrità del proprio corpo, e dei propri rapporti personali. L’allarme in questo senso è soprattutto diffuso nel partito repubblicano, ma è tutt’altro che assente (e le elezioni ci daranno una misura più esatta di questo) anche nelle file democratiche.

Ma bisogna andare più addentro a queste polemiche sulla gestione del corpo e a questo continuo sforzo di controllo del linguaggio. Sono conflitti che nascono in ultima analisi da un triste sentimento di mancanza, che dovrebbe suscitare compassione (per noi e per gli altri) piuttosto che sarcasmo. È un senso di “orfanità”, che nel contesto europeo e statunitense è orfanità rispetto alle fedi religiose, e soprattutto al giudeo-cristianesimo. Dove s’indebolisce una qualunque fede in un qualunque divino, ciò che comincia contemporaneamente a svanire è (con un paradosso soltanto apparente) anche il senso dell’umano.

Ricordiamo l’esclamazione di uno dei fratelli Karamazov, nell’omonimo romanzo di Fëdor Dostoevskij: “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”. L’ipotesi di quel personaggio tardo-ottocentesco si è nel frattempo trasformata in una profezia puntata al cuore del contemporaneo. Nell’atmosfera che ci circonda, dove domina, se non la negazione dell’esistenza di Dio come principio di ogni seria riflessione scientifica (si parla spesso oggi dell’“epoca post-morale”), almeno una profonda indifferenza rispetto a tutto ciò, il “tutto è permesso” ha già avuto luogo. Ma questa permissività si realizza, di solito, non come una qualche sfrenatezza immorale, bensì come un grigiore di vita, dove tutto è diventato più prevedibile e più noioso. E intanto gli elettori americani (che non sono così sempliciotti come una certa supponenza europea vorrebbe dipingerli) ascoltano e prendono nota, di questo riduzionismo secolare, che evita sistematicamente le antiche parole della consolazione e della speranza.

La competizione politica è fatta di emozioni, non certo di idee, e solo in piccola parte di opinioni. Ma non è il caso di disprezzare le emozioni, perché esse sono la strada che porta alle riflessioni profonde. Le elezioni americane sono anche – nonostante le apparenze – un’occasione per vere scelte di pensiero.

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