SARASOTA (Florida) – Mi chiedono chi vincerà le elezioni USA e, pur con tutte le cautele del caso, dovessi oggi scommettere dieci euro punterei su Trump, a dispetto di quanto si possa pensare in Italia.

È solo una sensazione (la stessa che si viveva nel 2016), ma che cresce dalla somma di tanti piccoli indizi e soprattutto perché Kamala Harris non piace, non convince, non “buca” lo schermo, non ha capitalizzato la vittoria nel dibattito diretto e non sembra portare al voto grandi numeri di elettori democratici delusi.



Anche Trump non piace a molti repubblicani, ma la Harris anche meno e alla fine a contare sarà sicuramente proprio il numero dei votanti. Trump ha dalla sua una robusta minoranza rumorosa, che però non deve esagerare, visto che proprio nell’apatia degli avversari può trovare la forza per diventare maggioranza.

Sembrava che la Harris risollevasse l’entusiasmo che era andato diminuendo in campo democratico con Biden candidato, ma dopo una fiammata iniziale non è stato così.



Sicuramente mai come questa volta le elezioni del 5 novembre rischiano di spaccare profondamente il Paese, soprattutto se (come tutto lascia pensare) il risultato sarà in bilico fino all’ultimo e magari affidato al contestatissimo voto postale.

La campagna elettorale USA è comunque diversa dalla nostra. Si consuma in (pochi) dibattiti televisivi e molti (troppi) spot pubblicitari in tv, anche con contenuti fortemente denigratori dell’ avversario e senza esclusione di colpi. Tutto gira intorno al denaro (il turno elettorale si stima costerà circa 15 miliardi di euro) ponendo seri dubbi sulla stessa trasparenza democratica, visto le somme in gioco e che solo alcuni candidati possono spendere, con dietro di loro il pericolo delle lobby che pagano, ma che poi potranno ricattare e condizionare gli eletti.



Pochi sanno – tra l’altro – che non si vota solo per il Presidente e una parte di Senato e Camera dei Rappresentanti, ma contemporaneamente anche per molte cariche statali e locali. Poi giudici, sceriffi, gli amministratori delle scuole e degli ospedali, il capo dei pompieri di ogni città e una miriade di altri piccoli centri di potere: è il bello dell’elezione diretta, punto di forza del sistema elettorale americano, ma di solito farsi eleggere costa, mai come questa volta.

Non ci sono i tabelloni elettorali come da noi, piuttosto i cortili ed i prati ben tenuti delle villette di periferia si riempiono di cartelli con inviti al voto ovviamente contrapposti tra loro. Posso sbagliarmi, ma quest’anno di cartelli ce ne sono in giro di meno, forse perché c’è meno voglia di esporsi rispetto al passato. Ricordiamoci che se metà America potrà infatti festeggiare il 6 novembre, l’altra metà non ne sarà proprio contenta e probabilmente molti trumpiani che voteranno GOP non lo dicono, temendo ostracismi, e anche questo atteggiamento è difficile da valutare nei sondaggi.

Kamala non convince, dicevo, perché ha rinnegato il suo background e il suo programma di partenza, che era di sinistra radicale e che di fatto è diventato quasi una fotocopia di quello di Trump per conquistare gli elettori indecisi al centro, ma scontentando così la sinistra. Sono elettori che comunque alla fine la voteranno in chiave anti-Trump, ma senza probabilmente troppa convinzione e con il rischio che una parte se ne resti a casa.

La Harris era “green” e ora ha benedetto perfino le estrazioni minerarie, era contro le armi ed ora dice di averne una in casa e di saperla usare, ha fallito sull’immigrazione e ora rincorre Trump con proposte anche più radicali. È credibile? Sicuramente è poco coerente. Soprattutto, la Harris sottolinea il suo orgoglio di essere donna e nera, il che le porterà sicuramente dei voti, ma gliene farà perdere altri. Difficile dire se il saldo finale sarà positivo. Certo è una linea ben diversa da quella tenuta a suo tempo da Obama, che non ha mai sottolineato la sua razza, quasi fosse insignificante davanti ai grandi problemi della nazione. Per questo l’appello ai neri da parte di Obama perché vadano a votare Harris non è piaciuto a molti bianchi democratici: l’appello al voto razziale ha tantissime controindicazioni e alcuni analisti hanno visto nell’intervento di Obama una mossa dettata dalla disperazione.

Ricordiamoci sempre che la maggioranza degli americani è fatta di gente semplice, spesso superficiale, poco aperta ai problemi del mondo. Molti non credono più nelle news in tv (che sono un continuo ridicolizzare Trump in modo esagerato e quindi controproducente), non vogliono più impegnarsi in missioni militari all’estero e non sono contenti della situazione economica. Per tutti questi motivi Trump continua lentamente a crescere negli Stati-chiave e – anche se la campagna resta apertissima – ad oggi ha forse una probabilità in più di vittoria.

 

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