Il fisco, la svolta green, il ritorno all’industria tradizionale: i grandi temi economici nella campagna elettorale americana restano ancora sullo sfondo. E non è detto che verranno approfonditi successivamente. Quello che conta ora per la Harris e Trump, spiega Mario Deaglio, professore emerito di economia internazionale all’Università di Torino, è cercare di imporsi con la loro personalità. Le loro scelte influiranno anche sull’Europa, con la quale è già in atto una sorta di guerra commerciale, anche se alla fine l’atteggiamento dei due fronti, democratico e repubblicano, rispetto al Vecchio continente e anche alle scelte pratiche in economia non sarà molto diverso. Lo slogan “America First”, che simboleggia le politiche trumpiane, in realtà non è così estraneo neppure a quelle democratiche.



La Harris dice di voler tassare di più i ricchi per dare ai poveri. Trump, invece, fedele alla linea seguita quando era presidente, vuole diminuire le tasse alle aziende per dare impulso agli investimenti. Quanto sono diverse in economia le idee dei due candidati alla Casa Bianca e che conseguenze potranno avere sull’Europa?



Sono prospettive debolmente disegnate da entrambi. La politica economica non è uno dei temi in discussione in queste settimane. Entrambi sanno di avere un elettorato che sta da due parti: ci sono ricchi che appoggiano Trump, ma anche ricchi che appoggiano la Harris, quindi tengono tutto sullo sfondo. La mia impressione è che scarichino tutto sul governatore della Banca centrale, il quale dovrebbe abbassare i tassi facendo tutti felici. Cercano di parlare d’altro, di immigrazione, di guerre, ma poco anche di questo. Vogliono vendersi come la persona giusta, quella che per carattere aiuterà i poveri, se necessario. Ma non c’è un piano.



Quali sono i nodi da sciogliere in questo momento nell’economia americana?

Scopriamo adesso, con quella gigantesca revisione dei nuovi occupati che hanno appena fatto, che l’economia americana non ha mai avuto il passo di corsa. Noi siamo stati lenti, ma loro non hanno corso. L’inflazione strutturale è alta. La cosiddetta inflazione dei titoli è bassa, ma solo perché sconta una diminuzione del prezzo dell’energia che c’è stata in questi mesi. I candidati parlano poco di problemi economici. L’unico tema trattato che ha degli immediati risvolti in questo senso è l’immigrazione, ma anche qui le posizioni della Harris non sono chiarissime: è lei che ha gestito la politica immigratoria di Biden e lo ha fatto da un lato con saggezza, ma anche senza concedere nulla. Entrare negli USA è sempre una cosa difficile e complicata.

Ma l’immigrazione è stata in qualche modo un volano dell’economia americana, come sostengono alcuni analisti, o ha rappresentato solo un peso?

Difficile da dire, perché nelle statistiche non si vede bene. Io direi sì in alcuni settori, soprattutto quelli legati all’agricoltura, all’industria alimentare. C’è un’altra fetta di immigrazione che è di tipo sbagliato, che non riesce e non vuole integrarsi e rappresenta un peso. Una parte degli immigrati, però, serve a fare i lavori più umili, quelli che gli americani non vogliono più fare: tengono in piedi tutto il settore agroalimentare.

Guardando quello che ha fatto Biden finora e considerando le idee di Trump, ci sono modi di vedere diversi su come sviluppare l’industria: i democratici puntano più sul green, i repubblicani sono per un ritorno all’industria e all’energia tradizionale. Due visioni davvero opposte?

Questo è uno dei punti in cui c’è un’effettiva differenza, anche se non è così grande come si crede. Quando si tratta di fare le leggi, tutti e due fanno altre considerazioni. La Harris è molto più sul lato verde, l’entourage di Trump vuole mantenere le cose come sono ora. I media europei, quelli italiani in particolare, cercano di drammatizzare queste differenze, ma in realtà la politica economica delle due parti non è poi così distante, si tende ad andare avanti come prima: l’America deve essere il primo Paese del mondo, la ricerca deve essere sviluppata negli USA, le spese della guerra in Ucraina alla fine devono essere pagate dagli europei. È così per entrambi. La Harris lo dice solo in una maniera più “simpatica”, ma quello che gli Stati Uniti esprimono oggi è questo. Hanno una gran paura di essere soli ma, al tempo stesso, è la fortezza America.

Insomma, che vinca l’uno o l’altro per l’Europa non cambia molto. Alla fine, cosa dobbiamo aspettarci dal nuovo presidente USA?

Se andiamo avanti così, avremo una guerra commerciale. L’abbiamo già in parte, c’è tutta una serie di dazi che gli americani hanno messo sulle nostre merci. D’altra parte, il nostro sistema di importazione dai Paesi che non sono “verdi” tende a far pagare un dazio più alto a tutti. Guerra commerciale è un termine amplificato, anche se sicuramente il commercio tra questi Paesi sta diminuendo. Nessuno è in condizioni drammatiche, ma si spera che i problemi si sgonfino da soli. Bisogna vedere cosa succederà: non abbiamo indicazioni chiare anche perché i candidati, nei loro discorsi, non parlano agli europei, si rivolgono solo agli americani, che in questo momento sono alla scoperta della personalità della Harris. Trump ormai lo conoscono. Il resto, compresa l’economia, rimane tutto sullo sfondo.

Continueranno a non parlare di economia?

Se possono evitarlo, sì. Poi bisognerà vedere se le Borse tengono. Il dollaro intanto viene usato sempre meno, anche se non in maniera drammatica, sostituito un po’ dalla moneta cinese: il Sud del mondo ha già gli strumenti giuridici per farsi la sua Banca mondiale. Le transazioni tra di loro tenderanno a farle con altre monete.

(Paolo Rossetti)

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