“Abbiamo il miglior Paese del mondo, ma non siamo in grado di raggiungere il sogno americano con questa leadership … abbiamo bisogno di un cambiamento, abbiamo bisogno di una nuova direzione, di un presidente che abbia già ottenuto questi risultati in passato”. Game, set, match. Così conclude J.D. Vance il dibattito tra i due candidati vicepresidenti nella tarda serata americana di lunedì, segnando la sconfitta del rivale democratico Tim Walz.
Secondo quasi tutti i più autorevoli osservatori, il dibattito l’ha infatti vinto il giovane repubblicano: ieri Gianni Riotta su Repubblica titola “Vance vince ai punti”, mentre Mario Calabresi posta sui social “il repubblicano J.D. Vance ha vinto il dibattito regalando alla campagna di Trump un’aria di serenità e pragmatismo” e Marco Bardazzi sul Foglio definisce il candidato repubblicano gentile, sicuro ed empatico.
Quello di ieri notte è stato un dibattito serio e a tratti duro, ma sempre rispettoso e mai denigratorio dell’avversario. Walz, governatore progressista del Minnesota, 60 anni, già insegnante e allenatore di football, è apparso in più momenti simpatico ma impacciato, spesso guardava in basso e prendeva appunti, più teso a ripetere un discorso preparato e ad evitare figuracce che a rispondere alle domande delle moderatrici e agli attacchi del rivale. Vance è apparso a proprio agio davanti alle telecamere, sicuro di sé, sempre con la battuta pronta, capace di rivolgersi indifferentemente al pubblico, al rivale e persino di controbattere le moderatrici quando hanno provato a contestare alcuni dati da lui portati.
Il dibattito è iniziato con la politica estera, con Walz che, impacciato, non risponde alla domanda circa le possibili azioni che Israele può fare per rispondere all’attacco iraniano e Vance che attacca ricordando come, quando Trump era presidente, queste guerre (parla del Medio Oriente ma anche dell’Ucraina) non accadevano. Il dibattito è proseguito sull’immigrazione, con Vance che dribbla la domanda “separerai le famiglie al confine?” e promette espulsioni per gli immigrati che commettono crimini e il completamento del muro al confine con il Messico attaccando la Harris, definita come la “zarina dell’immigrazione” di Biden.
Sull’economia, Walz tenta di elencare gli interventi del governo e le proposte della Harris a favore della classe media, come il prezzo bloccato dell’insulina, accusando poi Trump di favorire gli ultraricchi e di approfittarsi lui stesso del sistema fiscale per non pagare tasse. Le moderatrici mettono però Walz in imbarazzo chiedendo conto del fatto che lui stesso proclamava di essere stato a Hong Kong durante le proteste di piazza Tienanmen a Pechino, ma che in realtà in quel momento lui fosse negli Usa, e lo stesso Walz ha dovuto ammettere di aver fatto confusione.
Sull’aborto, cavallo di battaglia dei democratici in questa campagna, Walz parte avvantaggiato e lo sa, lo proclama un diritto basilare e dichiara il partito democratico dalla parte delle donne, senza però entrare nel dettaglio alla domanda delle moderatrici su quale mese ritenesse adeguato come limite. Vance invece reagisce contrattaccando, facendo notare come su questo tema i democratici abbiano assunto una posizione sempre più estremista, sostenendo che occorre fare un lavoro migliore per convincere le donne a non abortire e definendo quello repubblicano “un partito pro-family” che vuole proteggere i deboli. Incalzato dalle moderatrici ha negato di essere a favore di un divieto federale all’aborto, sostenendo la posizione di Trump, per il quale sul tema devono legiferare i singoli Stati.
L’ultimo scambio di colpi è sulla democrazia, ed in particolare sul burrascoso passaggio di potere tra Trump e Biden: Walz forse per l’unica volta segna un punto, ricordando che “la democrazia è più importante che vincere le elezioni” e incalzando l’avversario con la domanda “Trump ha perso le elezioni nel 2020?” (sconfitta mai ammessa dal tycoon); il senatore repubblicano ha però ricordato che Trump aveva in ogni caso chiesto proteste pacifiche e che anche la Clinton nel 2016 non aveva ammesso la sconfitta, parlando di mai provate manovre russe sul voto. Vance ha comunque concluso come ora occorra guardare al futuro e non al passato.
La vittoria del candidato repubblicano viene sancita in via definitiva nelle arringhe conclusive: il candidato democratico ha infatti parlato di libertà come concetto centrale e ha sottolineato il messaggio negativo lanciato da Trump sia durante la presidenza sia negli anni di opposizione. Vance ha invece ricordato gli anni, da lui raccontati nel bestseller The Hillbilly Elegy in cui, vivendo con la nonna, non potevano accendere il riscaldamento la notte, perché non aveva soldi per pagare le bollette. Ha detto che, come candidato vicepresidente, ritiene che l’America sia un Paese sufficientemente ricco affinché tutti possano avere un impianto di riscaldamento, mangiare un buon pasto, acquistare una casa e vivere in un quartiere sicuro, ma che tutto questo è stato reso più difficile dalle politiche di Kamala Harris, sottolineando che, se ora lei promette di attivarsi per alleviare gli effetti dell’inflazione, è da 400 giorni che ricopre l’incarico di vicepresidente e che le sue politiche hanno solo peggiorato questi problemi.
Ieri notte abbiamo visto il possibile futuro del partito repubblicano: un conservatorismo istituzionale, non populista ma popolare, che lavora per la crescita economica ma che non dimentica i poveri, che polemizza con l’avversario, ma che non lo disprezza, che vuole un’America sicura e che aborrisce ogni forma di razzismo, che crede ancora che un giovane cresciuto da una madre tossicodipendente, senza una figura paterna e senza poter accendere il riscaldamento la sera, possa frequentare le università migliori, far carriera, diventare senatore e, forse, vicepresidente.
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