Sono alla pari, ma in vista delle presidenziali del 5 novembre, ora è Donald Trump che sembra avere il favore dei pronostici, forte dei suoi programmi sull’immigrazione, sull’economia, del suo atteggiamento provocatorio ma anche deciso. Kamala Harris, invece, osserva Rita Lofano, direttore responsabile dell’AGI, ha dalla sua parte le donne e potrebbe sfruttare il fatto che in dieci Stati gli elettori dovranno pronunciarsi anche su quesiti riguardanti l’aborto, un tema sul quale è in grado di raccogliere consensi. In generale, però, la candidata democratica, consapevole che l’entusiasmo iniziale nei suoi confronti è un po’ scemato, ha bisogno di mostrarsi di più sui media, di farsi conoscere. In molti punti del suo programma non mostra posizioni abbastanza definite e chiare, una scelta che la sta danneggiando. Sarebbe avanti solo in due dei sette Stati in bilico.



Harris ha cambiato i toni della sua campagna elettorale, usa meno l’ironia e lancia accuse contro Trump dipingendolo come un problema per la democrazia. Si sente meno sicura di prima? Ha paura?

Ha dovuto resettare la sua campagna, dopo il grande entusiasmo seguito alla convention democratica, che ha mantenuto fino al dibattito in tv, durante il quale era stata molto attenta. Dopodiché l’entusiasmo ha cominciato a scemare. Non è che ora si trovi in grande svantaggio, però è impegnata in un testa a testa, con il Paese spaccato, a pochi giorni dal voto. Sul piano nazionale i due candidati sono 50 a 50. Leggendo agenzie e giornali, non c’è una visione unanime, nessuno si sbilancia.



Negli Stati in bilico com’è la situazione?

Trump è in vantaggio nella maggioranza dei sette Stati in bilico, ma è un vantaggio relativo e i sondaggi possono avere un margine di errore di 3-5 punti. Harris è avanti in Nevada e Pennsylvania, quest’ultima importante perché ha 19 grandi elettori; il suo avversario è in vantaggio in tutti gli altri. Il tema vero potrebbe essere che Trump resta molto forte sull’immigrazione: una grossa fetta di americani concorda sul fatto che ci sia il pericolo non tanto di un’invasione, quanto che i migranti portino delinquenza. Nell’intervista sulla Fox, Harris è stata incalzata sulla violenza dei clandestini e ha un po’ tergiversato.



Trump, invece, promette la più grande espulsione di clandestini della storia. È una promessa che paga in termini di consenso?

Quello dell’immigrazione è stato il suo grande tema del 2016 e potrebbe portarlo ancora alla vittoria. Da un sondaggio dell’Emerson College, Harris risulta avere un grandissimo vantaggio tra le donne, con il 56% delle preferenze contro il 41% di Trump. Le elezioni servono anche per decidere altre cariche locali e, in dieci Stati, agli elettori verranno sottoposti quesiti sull’aborto. Unendo il favore dell’elettorato femminile a quello che riscuoterebbe sui diritti civili, Harris potrebbe ottenere una spinta importante. Forse questo è il suo vero punto di forza.

Ci sono altri segnali che non sembrano giocare a suo favore?

C’è una rinnovata forza di Trump, che funziona quando torna a essere politicamente scorretto. In un comizio ha messo la sua playlist di canzoni ed è stato lì a ballare sul palco: un sondaggio a caldo ha rivelato che è stato molto efficace. Quando fa queste cose fuori dagli schemi ha sempre un tornaconto. Trump, poi, è forte con gli elettori maschi: anche gli uomini afroamericani non vogliono una donna presidente, e Harris non è favorita tra loro. Infine, Trump ha dalla sua parte anche il tema dell’economia, oltre ai suoi fedelissimi: i comitati elettorali sono pieni di volontari in campo repubblicano, mentre nella campagna di Harris lo staff, anche a livello locale, è tutto pagato.

Intanto in Georgia e North Carolina, che hanno già cominciato a votare, si segnala una grande partecipazione. È un dato che conta?

In questi Stati è in vantaggio Trump, ma potrebbe essere che proprio per questo si sia mobilitato l’elettorato democratico. Per il resto, Harris risente del fatto di non prendere posizioni nette: i repubblicani hanno lanciato degli spot in Michigan, dove è alta la percentuale degli araboamericani, per dire che lei è con Israele, mentre hanno fatto la stessa cosa in Pennsylvania per dire che è pro-Palestina, giocando molto sulle sue posizioni sfumate in merito alla guerra in Medio Oriente. Non avere posizioni chiare potrebbe non pagare.

I cattolici, invece, sono un fattore importante in queste elezioni?

Votano tendenzialmente repubblicano. Quando ero negli USA osservavo che le chiese, non solo quelle cattoliche, esponevano dei cartelli al loro esterno con messaggi espliciti, dando indicazioni di voto, con scritte del tipo “Sapete chi dovete votare”. Il tema dell’aborto pesa: molti latini votano repubblicano proprio perché su questo argomento sono molto attenti. Biden, come cattolico, è stato criticato per le sue posizioni su questo punto. Lui, infatti, ha detto che non è tanto per l’aborto quanto per la libera scelta.

Harris comunque dà l’impressione di essere un po’ in affanno rispetto a prima. È così?

La frase che riassume meglio la sua campagna è: “Non sono Joe Biden”. Paradossalmente, sente di doversi distinguere proprio da lui. Deve passare all’attacco, occupare i media, anche perché metà degli americani conosce Trump come ex presidente, ma Harris non sa ancora chi sia. La verità è che i due candidati sono fifty-fifty. Secondo il Financial Times, però, gli operatori finanziari scommettono più sulla vittoria di Trump.

Gli ultimi dati sull’elettorato nero e ispanico, tuttavia, dicono che Harris ha la maggioranza lì. Non basta?

Harris rappresenta le minoranze e, in questi giorni, è sostenuta quotidianamente da Michelle e Barack Obama, ma quando si disaggrega il dato sui neri, ad esempio, si scopre che può essere in vantaggio considerando complessivamente gli afroamericani, ma è in svantaggio tra gli uomini di questa categoria di elettori.

Quanto è sentito il pericolo che un voto incerto, con scarti risicati, finisca per spaccare ancora di più un Paese che si sta già mostrando abbastanza diviso?

Trump ha già dichiarato che non riconoscerà l’eventuale vittoria di Kamala, anche se si mostra convinto di vincere. Ha già detto comunque che controllerà che non ci siano brogli. La contestazione del risultato nel 2020 nacque sul voto per posta. Oggi, essendo i candidati così ravvicinati nei consensi, potrebbe volerci più tempo per capire chi ha vinto e questo potrebbe alimentare tensioni.

Resta l’incubo di un’altra Capitol Hill?

Quanto meno, c’è il timore che ci siano delle proteste. Dopo quelle di Capitol Hill, la vita è cambiata: a New York la situazione è peggiorata dal punto di vista della sicurezza, e lo stesso vale per Washington. Il clima non è tranquillo. Speriamo che non si arrivi agli eccessi dell’ultima volta.

(Paolo Rossetti)

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