Il percorso accidentato che fra luglio e agosto – una delle più drammatiche estati politiche americane – ha portato all’apertura ufficiale della campagna elettorale, ha verificato quasi puntualmente ciò che una già citata formula aveva previsto: ”O terranno duro insieme, o insieme cadranno”. Gli eventi più importanti si sono verificati (come sempre accade) prima, o negli intervalli dei congressi di partito. “In preparazione al” congresso repubblicano, uno dei due poli dello Stato parallelo e trasversale ha orchestrato un golpe all’americana (cioè rosso, come sangue) per togliere di mezzo il candidato scomodo perché troppo forte, Donald Trump; e “non è stata colpa loro” se non ci sono riusciti; mentre l’altra estremità del polo segreto invece ha centrato il colpo (anche perché la sua era una mossa più morbida: un golpe bianco, all’italiana), e ha dismesso il candidato scomodo perché troppo debole (Biden che non è mai stato veramente un presidente, ma solo l’ex vicepresidente di Obama).
Intanto Trump, il quale sa bene che continuerà a essere letteralmente sotto fuoco, come lo è stato fin dall’inizio della sua carriera politica (lo scrivevo nel 2016), ha fatto qualcosa di simile a quella tattica nel gioco degli scacchi che si chiama “la mossa del cavallo”, ovvero il percorso a “L”, spostandosi verso la nomina di un vice giovane e brillante, J.D. Vance, che potrebbe sostituirlo degnamente in un batter d’occhio o fischio di proiettile. Mentre il gruppo dei pezzi da novanta democratici ha deciso da parte sua che valeva la pena di ripiegare sull’usato più o meno sicuro: cioè, l’ineffabile Kamala Harris, l’ex vicepresidente dell’ex vicepresidente.
Con un’altra mossa del cavallo, invece (una di quelle “provocazioni” che lo rendono il meno noioso dei politici americani), Trump “ha rubato la scena” ai democratici, accogliendo il sostegno di Robert F. Kennedy jr. Il quale, nella serata di Phoenix, ha tenuto forse il primo discorso che si possa definire “rivoluzionario” dopo quelli del padre e dello zio.
Quanto possa durare questa alleanza, fra un’intelligenza pragmatica e brusca come quella di Trump, e l’intelligenza più colta e raffinata di Robert (che usa un lessico abbastanza diverso da quello che rintronava alla Convention di Chicago), non è chiaro. Ma Trump non teme di tenere a bada Kennedy, almeno per un certo tempo (mentre l’ineffabile Kamala sapeva bene di non poterlo controllare). E del resto, quella che echeggia nelle dichiarazioni del Kennedy junior è l’idea di una rivoluzione conservatrice (come fu nel Seicento inglese, la madre delle rivoluzioni moderne, compresa quella americana del secolo seguente).
Ma qualcosa manca a questo quadro; qualcosa senza la quale le prossime elezioni non riveleranno il loro vero senso; qualcosa che rende necessario un piccolo passo indietro, fino all’evento chiave: la sparatoria di Butler. E lasciamo stare per il momento la cospirazione, alla quale l’FBI ha subito risposto (a complotto, complotto e mezzo), secretando tutto in un cumulo di faldoni che forse vedranno la luce fra mezzo secolo (e intanto serviranno per qualche piccante anticipazione ben scelta, cominciando nel gennaio 2025, per tenere un po’ sotto schiaffo il nuovo presidente). No, il qualcosa che manca è il vero significato di un evento che è stato per giorni sotto gli occhi di tutti: la deviazione millimetrica che ha salvato la vita a Donald Trump. Questione interiore e non tecno-politica, a cui ogni potenziale elettore (decida poi oppure no se andare a votare) offrirà la sua personale risposta; e da cui dipende, al di là del chiacchiericcio sui sondaggi, il vero risultato, cioè il vero senso, delle elezioni; perché la storia “è fatta ogni giorno nelle profondità di ogni anima umana”, come diceva RFK in un discorso del 17 agosto di quest’anno.
La deviazione del proiettile: “capriccio del caso” o “miracolo”? Entrambe le risposte contengono in sé qualcosa di meccanicistico, di ateistico, anche la seconda, che troppo facilmente evoca l’immagine di Dio come Grande Ingegnere intento a schiacciare i bottoni giusti; ma entrambe, beninteso, vanno rispettate. Anche se sembra preferibile un’altra idea, che si esprime in una frase solo apparentemente convenzionale: l’evento ha avuto “un che di miracoloso” (pensiamo alla nobile e semplice idea dei Quakers: ognuno di noi ha in sé that of God, “quel certo che di Dio”). Tutto ciò si era sentito, e visto, nei volti degli ascoltatori durante il bel discorso di Trump per l’accettazione della sua nomina a candidato. Peccato che poi quest’ultimo sia quasi sempre ripiombato nel linguaggio – in certa misura indispensabile, ma pur sempre alienante – della polemica elettorale spicciola.
Eppure, c’è stato un momento strano dunque illuminante, nel corso dell’intervista-fiume un po’ monotona con Elon Musk: quando Trump, rievocando la sparatoria, ha detto di “considerare un onore” la propria sopravvivenza. È una frase ingenua, quasi adolescenziale, di quella adolescenzialità che nelle vecchie generazioni non era ancora oggetto di ridicolo, perché è uno dei modi in cui si manifesta un certo senso del religioso, solo indirettamente connesso con le religioni come istituzioni concettuali o come regolamentazioni della moralità. Questo è il tono, fra l’altro, di una certa devozione evangelica, come per esempio quella rappresentata dal figlio, di cui Trump è amico, del grande predicatore Billy Graham.
Quello che qui è in gioco è il problema di essere all’altezza dei momenti cruciali, fra la vita e la morte, che in qualche modo e misura ci coinvolgono tutti, davvero tutti. I morti di Butler infatti sono stati due, non uno: la vittima innocente e la vittima colpevole. E ogni morto ha bisogno di un attimo di rispetto: anche il giovane disgraziato e manipolato, che noi abbiamo visto soltanto come una specie di sacco di patate su quel famoso tetto, e di cui pare non sia rimasto nemmeno il cadavere.
Quella giornata resterà presente a molti, il 5 novembre; e non si tratta di orientare nell’una o nell’altra direzione politica, ma di ricordare a ognuno di riflettere sulla propria mortalità, e di dare un’occhiata alla propria anima.
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