Mancano ormai poche ore alla chiusura dei seggi delle elezioni americane, i cui risultati tutto il mondo attende con ansia. Perché non si tratta soltanto della contesa tra democratici e repubblicani, ma del confronto di due visioni del mondo e del potere. Sul ring ci sono due personaggi al limite del rocambolesco, che si trovano a rappresentare le due fazioni politiche in lotta in un contesto nazionale e mondiale estremamente complesso e pericoloso.



Mai come in questa campagna elettorale la comunicazione ha svolto un ruolo fondamentale. Dato che i sei grandi network mondiali di informazione dipendono finanziariamente da un solo fondo di investimento, si capisce perché la stragrande maggioranza di stampa e tv parteggino per i democratici, e quindi per la Harris.

La riprova è data dal fatto che fino a poco tempo fa riportavano di continuo sondaggi in cui la Harris aveva molti punti di vantaggio su Trump, e dipingevano i repubblicani come pericolosi facinorosi e i democratici come unici portatori di valori di progresso. Poi è successo che la Harris ha cominciato a mostrare la sua inconsistenza, parlando spesso confusamente, mentre Trump emergeva da due attentati esibendo un piglio da eroe di film western. Fatti che in un caravanserraglio come le elezioni americane hanno la loro importanza.



Così è avvenuto che messo improvvisamente di fronte a sondaggi reali, il campo democratico ha cominciato a dare segni di evidente nervosismo, soprattutto di fronte alle defezioni di due giornali storicamente supporter dei dem (il Washington Post e il Wall Street Journal), che hanno deciso di abolire gli editoriali “di parte”, per tenere un comportamento meno schierato. Apriti cielo: sono stati sommersi dalle critiche dagli altri grandi quotidiani, che così hanno dimostrato (se ce ne fosse stato bisogno) di parteggiare apertamente per la Harris, nonostante le sue evidenti debolezze.



C’è un altro fatto importante che merita di essere rilevato: il Washington Post era stato comprato da Jeff Bezos, Ceo di Amazon, il che significa che un altro tycoon sta cercando di riposizionarsi di fronte ad una possibile vittoria di Trump. Non a caso, un paio di mesi fa anche Zuckerberg (Meta/Google) aveva scritto – non richiesto – una pubblica lettera di scuse in cui ammetteva di aver censurato le scottanti notizie sul contenuto del computer di Hunter Biden sostenendo la vulgata che si trattava di disinformazione russa, per aderire alla richiesta di FBI e compiacere l’Amministrazione in carica.

Non sono gli unici movimenti che stanno avvenendo tra importanti esponenti del Deep State che, avendo un reale polso della situazione elettorale, stanno cercando di mettersi in buona luce verso Trump. Anche nella Silicon Valley, notoriamente tutta di sinistra, si stanno segnalando esempi di quello che laggiù viene definito “band wagoning”, traducibile come “effetto carrozzone” che nelle elezioni si osserva quando la maggioranza degli elettori indecisi sceglie nella fase finale quello che ritiene abbia maggiori possibilità di successo.

È davvero un peccato che molti illustri editorialisti abbiano rinunciato a svolgere analisi più oggettive, come invece ha fatto Federico Rampini che – pur tifando democratico – ha messo in luce i motivi per cui Trump sta raccogliendo così tanti consensi.

Nonostante l’economia non vada così male, la classe lavoratrice ritiene che durante il suo mandato, Biden – e quindi la Harris – non abbia fatto nulla di buono per i lavoratori. Stessa cosa pensano i neri, che in America sono circa quaranta milioni di persone. Neppure gli immigrati regolarizzati vedono di buon occhio la politica di apertura delle frontiere della Harris (modificata solo nelle ultime settimane) in quanto temono la concorrenza degli irregolari.

Occorre poi prendere in considerazione il fatto che gli ispano-americani, che sono oltre sessanta milioni di persone, sono in gran parte cattolici e non amano le posizioni pro-aborto e pro-gender della Harris.  A loro si uniscono le famiglie: memori che durante l’Amministrazione Trump non c’è stata alcuna guerra, hanno paura che i loro figli vadano a morire per “esportare la democrazia” in qualche Paese lontano o – peggio – temono gli effetti di una Terza guerra mondiale. Vogliamo sottovalutare gli studenti e i giovani in generale, che non condividono l’atteggiamento condiscendente dell’Amministrazione Biden-Harris verso l’espansionismo (eufemismo) israeliano a spese di palestinesi e libanesi?

Da non dimenticare l’esistenza di una consistente percentuale di democratici ancora capaci di senso critico che non hanno accettato l’imposizione della Harris come candidato da parte di Biden, e potrebbero astenersi.

Mettendo insieme tutti questi elementi si capisce quindi perché nel mondo dem si stia spargendo il terrore di una vittoria di Trump di larga misura: un fattore che potrebbe indurre a una maggiore partecipazione in extremis, ma anche a ricorrere ai brogli. Elon Musk, grazie alla denuncia dello scrittore repubblicano Jerome Corsi, ha scoperto e denunciato la presenza di diversi algoritmi presenti nel sistema di voto elettronico capaci di cambiare voti spostandoli da un candidato all’altro. Una giornalista d’inchiesta sta testimoniando l’arrivo ai seggi di pullman carichi di immigrati che non parlano inglese e che vanno a votare senza alcun documento di identità.

Il fatto che Trump abbia assoldato centinaia di avvocati da disseminare nei seggi per controllare eventuali brogli ha fatto scrivere alla stampa avversa che si sta preparando a non accettare il risultato elettorale. Stampa che riporta di continuo accuse a Trump di essere un nazista e un pericolo per la democrazia. Spingendo Rampini a scrivere: “Questo la dice lunga sullo stato dell’America di oggi, sul livello di animosità delle due tribù politiche. In un certo senso questo assolve – almeno in parte – la crescente faziosità di tanti media: non fanno che dare al proprio pubblico ciò che chiede, un’informazione intrisa di giudizi e di partigianeria”.

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